venerdì 22 agosto 2014

Va bene, il Milan ha venduto Balotelli ma nessun tifoso può viverla come una privazione se solo ha visto giocare Van Basten per cinque minuti. Alla peggio, tanto valeva tenersi Jean-Pierre Papin: al cui genio nasuto nel 2010 avevo dedicato un pezzo all'interno di un ciclo di Quasi Rete in cui ogni firma doveva raccontare il proprio calciatore straniero preferito.

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Motta. Dopo l’identificazione mistica del Milan di Berlusconi con l’agenzia di assicurazioni Mediolanum, il cui nome spiccava candido e stampatello sulle strisce rossonere decorato in cima di discreto logo Fininvest, l’improvviso cambio di sponsor aveva dato l’idea di un repentino, imprevisto cambio di rotta; forse perfino di una jettatura. Banale associazione d’idee, certo: il marchio assicurativo aveva assicurato vittorie a iosa in coppe e coppette nonché uno scudetto per soprammercato; il nome del nuovo sponsor – un po’ perché panettone, un po’ perché scritto più in grande, con un bianco se possibile più pastoso e con l’enorme maiuscola iniziale che gli conferiva una sorta di tronfia maestosità – suggeriva un’opulenza minacciosa, un perenne Natale che avrebbe potuto portare all’indigestione. Prova ne sia la politica estera della società: tornata in Coppa dei Campioni, aveva approfittato delle nuove regole sul tesseramento degli stranieri per comprarne altri tre da aggiungere agli istituzionali olandesi. Vice-Rijkaard, dal servizio militare a Bari era rientrato Zvonimir Boban. Vice-Gullit, dalla Stella Rossa che tre anni prima tanto ci aveva fatto tribolare era arrivato Dejan Savicevic. Vice-Van Basten, era arrivato Jean-Pierre Papin dall’avversario che era diventato nemico e incubo nella notte del Vélodrome, quando il Milan s’era schiantato contro l’ideale della propria stessa imbattibilità e, vedendosi incapace di avere la meglio sul campo dell’Olympique Marsiglia, si era ritirato dalla competizione a dieci minuti dalla sconfitta irrimediabile accampando il pretesto di un faretto fulminato – tanto che si era poi parlato di Coppa dei Lampioni.

Papin era stato agitato come spauracchio già nel 1990, quando solo in extremis e con un goal di mano in fuorigioco (mancava solo che sparassero al portiere) il Benfica di Eriksson aveva eliminato il Marsiglia in semifinale onde offrirsi quale vittima sacrificale al candido Milan della finalissima. Nel 1991 l’avevamo visto giocare – maglia bianca con inserti celesti, sponsor Panasonic sul petto, un foulard della moglie come fascia di capitano – e ne eravamo effettivamente rimasti impressionati. Il 1992 l’avevamo passato a cercare di comprarlo; e quando ci eravamo riusciti l’effetto era quello di un fotomontaggio. Un po’ perché eravamo assuefatti ai tre olandesi, un po’ perché meglio di Van Basten esisteva solo l’autodsitrutto Maradona, non ci capacitavamo dell’irruzione del secondo giocatore più forte del mondo a Milanello. Con quei capelli biondicci riccissimi e corti, con quel nasone che sarebbe stato inverosimile anche nella sua caricatura, con gli occhi ravvicinati e dal colore impossibile a definirsi tanto erano piccoli, Papin era inquietante – familiare e respingente al contempo – nella nuova maglia rossonera sulla quale campeggiava la promessa di infiniti panettoni.

La regola era che potevano giocare, fra campo e panchina, solo tre stranieri per volta. Ciò danneggiò soprattutto Gullit, che sin dall’autunno si imbarcò in un’insanabile polemica contro Berlusconi che voleva (cito) “tagliarlo”; ma anche Papin si vide presto mettere in ombra dalla più straordinaria stagione di Van Basten. Che conta stare in tribuna, in panchina o in campo se puoi solo guardare uno che, come ad esempio a Napoli l’8 novembre 1992, entra in campo e fa quattro goal? Immaginate l’arrabbiatura: siete inferiori a un solo giocatore al mondo, ma è il vostro compagno di squadra e il più delle volte non potete nemmeno giocare al suo fianco perché la federazione lo impedisce.

Con quel naso un po’ così, Papin sembrava Snoopy quando decide di fare l’avvoltoio: sale su un albero, si incurva, si fa talmente truce da  intristirsi per davvero e finisce per piangere amare lacrime abbracciato a Charlie Brown o, nel peggiore dei casi, al tronco dell’albero stesso. Però l’occhio dei milanisti, finalmente allenato a scorgere forme anche diverse da quelle dei tre olandesi, imparò presto ad amarlo come lo amavo io, vedendolo vibrare di talento e indignazione. Tutti ricordano un’altra quaterna di Van Basten, comme d’habitude: uno dietro l’altro, quattro goal all’Ifk Goteborg confezionati ciascuno in maniera diversa. Papin guarda e non favella; resta imperturbabile il cipiglio, immobile il naso, impenetrabile lo sguardo. Poi, due turni dopo, sostituisce Van Basten nella trasferta contro il Porto. Per settanta minuti non fa niente: è esasperante nel suo andare avanti e indietro per la tre quarti avversaria senza mai, dico mai, tentare di puntare la porta in maniera costruttiva, sbagliando controlli, ripiegando verso il fallo laterale, salendo sull’albero e lacrimando mesto. Si teme il tracollo. Invece al settantunesimo, prima ancora che il pubblico se ne renda conto, ha già colpito l’unica palla buona che gli è arrivata e ha segnato il definitivo 0-1. Due punti guadagnati con la quaterna dell’indomito Van Basten; altrettanti guadagnati con il colpetto estratto dal cilindro dello svogliato prestigiatore d’Oltralpe: il Milan avanzava verso la finale come torre ferma che non crolla al mutar del turnover.

Però alla fine la Coppa dei Campioni la vinse l’Olympique Marsiglia.