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Simonetta Sciandivasci, notando che La domenica lasciami sola inizia con una dedica ho temuto il peggio
ma poi ho capito che si trattava di un machiavello per indispettire il lettore
e poi tramortirlo con un incipit folgorante. Ho trovato formidabile l’idea di
trasformare la finale di Champions – con te solinga che la guardi sul divano –
in una battaglia di Waterloo cui assisti come Fabrizio Del Dongo: un evento
storico del quale non capisci nulla per via di un’incompetenza talmente
adamantina da ammettere candidamente: “Mi fermo alla Coppa Italia e ai
Mondiali, per il resto vado a Messa”; “Europei ogni due anni; Olimpiadi ogni
quanto non l’ho ancora capito; Mondiali ogni quattro”. Riesci però a non capire
niente con soave consapevolezza e infatti non ti sfuggono alcuni fondamentali
che invece nella loro enormità risultano anguille per maschi ottenebrati da
troppa retorica da pay tv. Ad esempio, fra Real e Atlético Madrid tifi Real
perché ha un nome aristocratico, perché è ricco, perché vince spesso e perché
“degli atletici e dei pauperisti diffido, soprattutto se maschi: non mi aprono
la portiera, non mi offrono la cena, in pausa pranzo vanno a correre”. Intuisci
che “se l’Atlético dovesse vincere, verrà instaurata la dittatura del
proletariato” e soprattutto che quelli che tifano Atlético “possono buttarla
sul romanticismo quanto vogliono ma la verità è che sono solo invidiosi”.
Mi insospettisco dunque e mi domando se il tuo non capire
niente di calcio sia una maschera sbarazzina sotto la quale nascondi di capire
molto di tante altre cose. Fingi di avere scritto un romanzo d’amore – e come
tale lo venderanno, per carità, ben venga – ma la storia della ragazza che
s’innamora dell’uomo innamorato del calcio è una maniera elegante di parlare
d’altro. Apparentemente non mi dai ragione. Contro una pletora di soloni
imbolsiti contesti l’idea che il calcio sia metafora della vita e dichiari: “Il
calcio è il calcio. Punto”, così come
Oscar Wilde faceva dire a Erodiade che “la luna somiglia alla luna, e basta”;
non somiglia né a una donna né a un fiore né a una mano. Per fortuna non sei
una grande decapitatrice quindi posso ribattere: proviamo a leggere il tuo
libro senza pensare al calcio?
No, dirai tu. Senza il calcio non c’è il tuo libro – anzi,
come essere più chiari?, hanno pure disegnato un pallone in copertina. Senza
calcio non ci sarebbero le battute svampite che sono balenii di surrealismo
inaspettato. La Roma incontra l’Arsenal: “Che cos’è, un detersivo?”. Gioca col
numero 5: “Come Chanel, brava!”. Se uno legge su questo livello, oltre a ridere
molto, mette il romanzo sul piano della grande chick-lit divertentissima, ti fa
sinceri complimenti e finisce là. Però La
domenica lasciami sola va oltre e funziona perché mina le basi psicologistiche
non solo dei romanzi rosa postmoderni ma anche della narrativa di sé stessa che
ogni singola donna (e anche gli uomini ormai) si racconta per giustificarsi
piagnucolando, pretendendo attenzione e conforto perché crede di essere l’unica
a non star bene: “Nessuno sta bene”, scrivi tu, “vivere è un disastro”.
Non pensare alla trama, la trama non conta. Mi piace il modo
in cui dici la verità senza lesinare sulle parole giuste né perderti in
distinguo e smarrirti nel labirinto di cosa penseranno i benpensanti. Di questo
passo non scriverai mai sul Corriere della Sera, sappilo. Continuerai a
oltranza con Giornale e Foglio e io continuerò a leggerti sapendo che quando
c’è da sparare spari e dici senza paura ma con luminoso umorismo che il
matrimonio è stato lasciato diventare una cosa da gay, che l’incremento di
matrimoni eterosessuali è merito degli immigrati quindi le donne farebbero
meglio a convertirsi all’Islam, che farai figli con l’uomo che ami ma solo se
prima ti sposa, che “l’amore nasce dal mistero, non dal rendiconto”, che
l’incivilimento dei maschi porterà all’estinzione, che il sessismo è sexy, che
l’amicizia fra uomini e donne non esiste, che quelle che fanno le sofisticate
hanno sovente le tette piccole e che l’ateismo non lo sa ma è figlio di Dio. Mi
sono alzato in piedi ad applaudire come un cretino, in camera mia, quando ho
letto che proibiresti per legge alle donne di pagare al ristorante e presumo
anche, per estensione, l’utilizzo del denaro, la schiavitù lavorativa,
l’ipocrisia del fingersi realizzate perché si appaltano le proprie ore
all’ufficio anziché alla pace domestica. Di fianco alla scena in cui la
protagonista si fa portare al ristorante e poi chiede al maschio “Scegli il mio
ordine”, ho disegnato un piccolo cuore. Ma poiché come te ho paura di Laura Boldrini
e delle accuse di femminicidio preterintenzionale, non me la sono sentita di
fare altrettanto quando lei gli chiede: “Prima voglio che tu mi dia un
ceffone”.
“Quando una cosa è oscura, o è jazz o è fuorigioco”. Più
ancora della pagina di improperi a Marco Travaglio mi è piaciuta la tua
predilezione per la semplicità, il senso della quale è andato perduto in un
mondo pretenzioso che la trova riduttiva. Tu invece rivendichi che la donna non
deve poter fare tutto, che non si deve per forza capire tutto, che quindi il
fuorigioco può tranquillamente restare misterioso e che di conseguenza, quando
proprio si deve guardare la partita insieme, la donna non deve mai – mai –
porre domande all’uomo. Sante parole. L’uovo di Colombo è a pagina 124 dove,
poco prima di chiedere a Dio se le quote rosa siano peccato, argomenti incidentalmente
che il femminismo è calvinista. (Non ho mancato di notare che nel romanzo dopo
Dio, per ottenere un crescendo di suspense, fai intervenire anche Andreotti). Giusto:
come il calvinismo il femminismo pretende di capire tutto, presuppone di averlo
capito, distingue il bene dal male con una riga netta, si mette dal lato del
bene e dà il righello sulle nocche a tutti i presunti malvagi. (Questo in
effetti mi illumina anche sugli improperi a Travaglio). Non hai paura di
chiamare le cose col loro nome e quindi definisci eugenetica la pretesa
femminile di trovare un uomo alla propria altezza quando invece “l’uomo che ci
merita, banalmente, è l’uomo che ci ama”.
Una copia di questo libro andrebbe spedita ogni giorno a
Laura Boldrini, nella speranza di trovarla non troppo impegnata a farsi
fotografare col velo o a dichiarare che la bellezza dell’immigrazione salverà
il mondo. Capirebbe che col calcio gli uomini continuano a giocare tutta la
vita; le donne invece lasciano le Barbie a dodici anni e per questo, scrivi,
diventano “esseri cupi e grigi”. In copertina a La domenica lasciami sola c’è scritto “romanzo” ma sotto sotto
viene fuori prepotente un pamphlet fatto come si deve, che tramite il calcio
intende restituire agli uomini “il sogno atavico e spudorato”: quello che per
voi donne, lo sostieni tu perché io non ne ho idea, è stato il matrimonio di
Grace Kelly. Non contenta, dai anche le istruzioni su come tenere insieme
questi estremi non comunicanti: la colla che tiene uniti uomini e donne è un
sospiro, lo stesso rassegnato ed esasperato e affettuoso che John Lennon emette
all’inizio di ogni ritornello di Girl.
Quando si sta insieme bisogna essere uniti, non coerenti né tanto meno
rispondenti a un ideale astratto; “dobbiamo essere una coppia, non una linea
editoriale”.
Hai fatto rotolare il pallone lontanissimo ma devi solo
sperare che le persone leggano il tuo romanzo come scanzonata presa in giro dei
maschi ultras che vanno allo stadio pure quando è chiuso, come storiella
romantica col lieto fine dagli occhioni a cuoricino. Allora salteranno le
pagine sulla disfida onirica fra quelli che guardano il calcio senza donne e
quelli che lo guardano con le donne, in cui convochi undici maschietti per
fazione e chiami ciascuno di loro a tirare un rigore ossia a pronunciare una
frase che trovano risolutiva in un senso o nell’altro. Intuirai con chi mi
sarei schierato. Se oltre ad Alessandro Giuli, Maurizio Milani, Piero Vietti e
Franco Trentalance (trova l’intruso) avessi convocato anche me, mi sarei
limitato a spedirti due righe sibilline: Quando
chiesero a Miguel de Unamuno perché mai non ci fossero grandi filosofi
spagnoli, rispose chiedendo se ci fossero grandi toreri tedeschi. Poi mi
sarei rintanato a leggere i consigli che elargisci alle donne (“Si dà il peggio
di sé quando si cerca di fare qualcosa per il bene dell’altro”) e
indirettamente agli uomini: “Evitare quelli che credono di averci conquistate
dopo un bacio, perché significa che hanno il fiato corto e la tenacia a zero.
Significa che avranno gli attacchi di panico non appena diremo loro ‘Stasera ho
mal di testa’, invece di infilarci un moment in bocca e convincerci a svestirci
e giocare ai film svedesi”.
Tutte verità che non suonano né alla Boldrini né alle
zitelle eugenetiche che soffrono di quella che definisci sindrome di Bridget
Jones: la convinzione di credere che ci sia sempre a loro disposizione uno
migliore di quello che hanno, con l’inevitabile conseguenza di morire di
vecchiaia, sole, col cadavere che viene scoperto solo quando è stato mezzo
divorato da cani alsaziani. Non ricordi dove hai letto, qualche anno fa, che
era stato un ministro inglese a inventarsi questa sindrome causando grande
scandalo. Ti vengo incontro. Si chiamava David Willetts, era gennaio 2010, e me
lo ricordo benissimo perché era uscito un articolo apposta sul Foglio: l’avevo scritto
io. Coincidenza che mi fa sorridere al punto di giungere all’eccesso di
perdonarti non solo la dedica ma anche le sette pagine di ringraziamenti,
limitandomi a saltarle.