Si finisce per voler chiedere all’immagine di quarta di copertina, che ritrae uno sportivo Argentina con la fede in bell’evidenza mentre si versa (malaccio, troppa schiuma) una birra dietro il bancone di un bar di Cesano Maderno, di non fermarsi a pagina novantatre e di raccontare altre storie, altre strade, altre persone: esattamente come aveva fatto nel suo romanzo più bello e (ahimè, ahilui, ahinoi) sottovalutato, quel Bar Blu Seves (Marsilio, 2002) che racconta un anno e un secolo intero con una semplicità di penna davvero sbalorditiva.
domenica 29 aprile 2007
Una Taranto brianzola
Si finisce per voler chiedere all’immagine di quarta di copertina, che ritrae uno sportivo Argentina con la fede in bell’evidenza mentre si versa (malaccio, troppa schiuma) una birra dietro il bancone di un bar di Cesano Maderno, di non fermarsi a pagina novantatre e di raccontare altre storie, altre strade, altre persone: esattamente come aveva fatto nel suo romanzo più bello e (ahimè, ahilui, ahinoi) sottovalutato, quel Bar Blu Seves (Marsilio, 2002) che racconta un anno e un secolo intero con una semplicità di penna davvero sbalorditiva.
venerdì 27 aprile 2007
Quiz: cos'ha visto Fini?
a) Ha visto Rutelli e Fassino confluire nello stesso partito. Giova ricordare al proposito che Fassino s’è iscritto al Partito Comunista, per sua stessa testuale e sorprendente ammissione, per dare un segnale contro il comunismo; Rutelli invece era un giovane radicale (i radicali, per chi non se li ricordasse più, erano quelli di Pannella) che ora guida il partito dei teo-dem, e che quando all’uscita dal colloquio col cardinal Bagnasco s’è trovato di fronte un manipolo di protestatari della Rosa nel Pugno ha voltato la faccia dall’altra parte. Anzi, riformulazione postuma: ha visto Rutelli e Fassino aderire al nuovo partito di Follini.
b) Macché, ha visto l’Inter vincere lo scudetto. O meglio, ha visto l’ambrosiana credere di aver vinto lo scudetto (supportata in questo dall’abile campagna mediatica della rosea Gazzetta dello Sport, rosa sempre più smunto a dire il vero, la quale ha cercato di convincere la popolazione che quest’anno ci sia stato un campionato di serie A) e spacciarlo in giro senza ritegno. L’ambrosiana, come sa chiunque non sia interista dalla nascita, ha in realtà vinto il trofeo Telecom-Pirelli intitolato alla memoria di Guido Rossi, già presidente di un po’ di tutto. Va tuttavia riconosciuto che la vittoria in questo lungo torneo estivo (protrattosi fino all’aprile successivo) ha comunque garantito all’ambrosiana un posto nella prossima stagione, quando Milan, Roma, Lazio, Fiorentina e Juventus (e forse Napoli o Genoa o Bologna) daranno nuovamente vita al campionato di serie A temporaneamente sospeso. Con l’ambrosiana, come no.
c) Macché, ha visto la debacle di Le Pen, peggio ancora, ha visto i socialisti francesi andare al ballottaggio, peraltro vestiti da donna. In fin dei conti da quanti anni non andavano al ballottaggio? Dodici? Fate conto che all’epoca io avevo appena iniziato il liceo mentre ora sono, ehm, che sono adesso?
d) Macché, ha visto il Partito delle Libertà. Sì, domani.
sabato 21 aprile 2007
Quasi quasi mi iscrivo anch'io
Oggi il Papa va a Pavia e io sto a Oxford: immaginate quanto mi girano i coglioni.
Di potenzialmente infiniti, l’unico momento realmente preoccupante del discorsone di Fassino è stato quando ha dichiarato che il nascituro Partito Democratico guarda a chi avrà vent’anni nel 2010. Con un rapido calcolo, ho realizzato che chi avrà vent’anni nel 2010 oggi ha sicuramente diciassette anni e ha appena terminato di trascorrere il sabato mattina al liceo (possibilmente classico) filmando col cellulare di ultima generazione il suo compagno di banco ubriaco che infila un braccio intero nel retro dei pantaloni della professoressa di inglese che non se ne accorge in quanto è intenta a comprare una dose da un bidello falso invalido mentre gli altri ragazzi menano il più ritardato fra loro al quale è stata previamente iniettata una pera dal preside vincitore di concorso truccato – il tutto durante il compito in classe di latino, magari. Insomma, se è così il futuro del PD non promette molto di buono, ma è probabile che Fassino non ci abbia pensato. Lancio un’idea innovativa: se si smettesse di rincorrere i giovani, che in buona parte sono cretini, la politica diventerebbe più seria.
Per il resto, tutto promuovibile. Mentre Rutelli rispolverava in faccia a Prodi l’abolizione dell’ICI sulla prima casa (idea già sentita, se non erro), il discorso di Fassino è stato non solo lungo (come Fassino stesso, d’altronde) ma anche piuttosto ampio. Di più, onnicomprensivo. Il sentimento più ragionevole e ammirevole di partenza del PD bifronte è che deve guardare indietro e avanti, a sinistra e a destra, alla politica e alla società civile (usiamo i termini marxisti, dei quali come del maiale non si spreca nulla), sostanzialmente includendo nel proprio grembo materno chiunque non sia Fabio Mussi. Pure Berlusconi, di là dalla battutina che riporto nel titolo, un pensierino l’ha fatto, poiché appare che dalla settimana prossima il PD sarà un interlocutore che potrebbe davvero riuscire a riunire i pregi di DS e Margherita in attesa di mostrarne, inevitabilmente col tempo, i difetti. Di questo va reso atto.
L’altra sera ho visto (in differita su RaiClick) la Dandini che con Vergassola sbeffeggiava questa faccenda del pantheon del Partito Democratico, includendovi Frieda Kahlo e Topolino – ma che ve lo racconto a fare, voi state in Italia e lo sapete meglio di me, oltre ad averlo visto prima. La vera satira del Partito Democratico a tutti i costi, del Partito della ggggente vera, del Partito del pensiero giusto, l’ha fatta l’agguerritissima Concita De Gregorio (stavo per scrivere concitatissima, ma tento sempre di limitare i miei umorismi) la quale, con la fattiva e ghignante collaborazione dandinesca, ha postulato una società ideale in cui nessuno sia sposato con nessuno ma tutti abbiano fatto figli con tutti – almeno così m’è parso di capire. È probabile che mi sbagli, ma distintamente alla fine ho sentito la Dandini proporre il modello Zapatero, che non consiste nella fucilazione di tutti i cardinali ma nell’incentivo all’acquisto di una lavatrice automatica che avvia il lavaggio se e solo se riconosce l’impronta digitale di un coniuge diverso rispetto al precedente – ossia il primo lavaggio lo programma la moglie (è sempre così), il secondo deve programmarlo il marito, il terzo di nuovo la moglie e così via. Bella stronzata, benché democraticissima: e se uno dei due coniugi deve assentarsi per un convegno all’estero o, più radicalmente, decide di morire, il lavaggio chi lo avvia? Zapatero? La Dandini?
Il retropensiero è dunque: come un tempo Guareschi scriveva Compagni, votate per il Fronte: verranno i russi e vi fregheranno le biciclette, non vorrei dover trovarmi io a scrivere Compagni, votate per il PD: verrà Zapatero e vi cambierà la lavatrice. Il tono lucidamente conciliante del discorsone di Fassino, tuttavia, mi fa ragionevolmente credere che se andassi a prospettargli il pericolo, dicendogli che mi iscriverei al Partito Democratico se soltanto non ci fosse questa faccenda della lavatrice spagnola, si darebbe da fare per ovviare alla difficoltà. Oddio, da quel che ho capito dai vari discorsi – soprattutto quello di Veltroni, mister “era-democratico-Ghandi-era-democratico-Martin-Luther-King” – Fassino sarebbe pronto ad accogliermi anche se gli pongo come condizione, che so io, che il Partito non si chiami soltanto Democratico ma anche Monarchico, Teocratico, Milanista ed Erotomane.
Sia chiaro, non penso che ora come ora il PD sia un contenitore vuoto; tutto il contrario, anzi. Se vuole avere la credibilità che merita dovrebbe iniziare a svuotarsi del tutto, eliminando in prima istanza l’attuale governo e soprattutto l’alleanza con la sinistra estrema. A leggere le dichiarazioni di stamattina, un marziano (o semplicemente un italiano in Inghilterra quale sono io) crederebbe che si sia creato un governissimo fondato sull’amore (radicato negli anni) fra D’Alema e Berlusconi con Mussi, Giordano, Mastella e Maroni all’opposizione. E, per carità, c’è pure a chi piacerebbe.
Fidarsi è bene? Non fidarsi è meglio? In generale, la linea di condotta più saggia è l’attendismo (o, come una mia altissima amica conviene, la pigrizia). E nel frattempo ricordiamoci che comunque sia non prevalebunt, come direbbe il Papa che va a Pavia, mentre io sto a Oxford. Almeno fossi in Francia, potrei godermi un po’ di campagna elettorale vera e magari aiutare Sarkozy a vincere, votando per Le Pen.
Da Roma mi scrive un mio amico, giovane iscritto nei DS: “Ve stamo a fregà sur tempo. Stamo a ffà er Partito Unico der Centrodestra”.
giovedì 19 aprile 2007
Tragicommedia in una ferita
Eppure Gregorio Parigino, insegnante salentino e corsivista saltuario, vede progressivamente frapporsi una distanza incolmabile fra sé e tutte le persone che lo pressano d’intorno. Il suo abbandono, psicologicamente più sottile rispetto a quello fisico di Filottete, consiste nel non riuscire a sentirsi adeguato a un mondo che va troppo in fretta e che gli richiede un’attenzione spropositata, salvo poi non ricambiarlo e accusarlo reiteratamente di egocentrismo e immaturità. Si trova preso in un gorgo di speranze deluse perfettamente incarnato dalla vita politica locale: individuato in lui il candidato ideale, il partito dei Verdi dapprima lo seduce e quasi lo forza ad impegnarsi in prima persona; salvo poi, passate le elezioni, lasciarlo andare alla deriva e voltargli le spalle tradendone la fiducia.
Di fronte al progressivo abbandono, o meglio di fronte al progredire della distanza fra sé e chi lo circonda, più di una volta a Gregorio Parigino pare di non essere più lo stesso. Esistono, infatti, due protagonisti: il Gregorio Parigino reale, per così dire, e il Gregorio Parigino percepito. Per fare un esempio pratico, al momento di farsi fotografare per la campagna elettorale, il Parigino pubblico si sente dire che è affascinante come pochi; al momento dello sviluppo delle foto, ingrandendone i dettagli digitali, al contrario il Parigino privato si vede triste, ripugnante, improponibile: e questo è, ai suoi stessi occhi, il Gregorio Parigino reale. Se la sua amante lo ritiene somigliante a Nicholas Cage, sua moglie non fa altro che rimproverargli il progressivo decadimento psicofisico; se dopo l’incidente sente bisogno di una lunga convalescenza, parenti e amici fanno a gara a sovrapporre le proprie esigenze alle sue. Di fronte a uno specchio, prima ancora della propria immagine riflessa Parigino vedrebbe la crepatura sulla superficie.
Livio Romano si è abilmente infilato in questa crepatura, in questa distanza che per tutti i personaggi è impercettibile ma che al protagonista appare insormontabile. Chi ha letto le sue opere precedenti si renderà facilmente conto che Niente da Ridere riesce a miscelare brillantemente gli spericolati esperimenti linguistici di Mistandivò (Einaudi 2001) con la satira e l’impegno sociale di Porto di Mare (Sironi, 2002). Questi ultimi cinque anni non sono passati invano: oltre a dare notevole spessore – anche quantitativo – alla trama di Niente da Ridere, Livio Romano ha così potuto riconsiderare alcune convinzioni, tanto formali quanto contenutistiche, che nelle sue due opere precedenti talvolta apparivano tagliate troppo di netto.
Da un lato infatti Romano viene incontro al lettore moderando i suoi primi ardimenti semantici che non di rado rendevano necessaria una rilettura più concentrata. Dall’altro canto, la tragica distanza che Parigino interpone fra sé e un mondo che sembra crollargli addosso consente a Romano di temperare le (per quanto giustificate) arrabbiature impegnate che avrebbero altrimenti rischiato di mettere in ombra la trama. Il raggiungimento di questo saggio equilibrio permette a noi lettori di avere per le mani un romanzo ben costruito, che si legge piacevolmente e che fa pensare senza essere mai stucchevole; mentre all’autore permette di riverberare la propria indubbia crescita sulla precipitosa maturazione alla quale Parigino è costretto dagli eventi.
Il ritmo forsennato di Niente da Ridere, che si sviluppa in lunghi capoversi paratattici, di tanto in tanto si interrompe e si distende: accade quando, travolto dalla propria stessa vita, Parigino si affida all’Alprazolam, un ansiolitico fenomenale nel tamponare immediatamente gli attacchi di panico ma che a lungo andare crea dipendenza e inevitabili sbalzi d’umore. Il maggior pregio tecnico di Niente da Ridere consiste proprio nella prosa di Romano, che riesce a rendere perfettamente l’idea di quest’alternanza fra consolazione e angoscia, finché non arriva il momento in cui (poco dopo la metà del romanzo) Parigino deve riuscire a sbrigarsela da solo.In quel momento, recluso nella casetta di campagna come Filottete sull’isola, capisce che la pasticchetta quotidiana è un supporto inutile se non viene accompagnato da uno sforzo interiore, e che la propria vita consiste, come quella di ogni uomo, nella continua ricerca di un Senso, con tanto di esse maiuscola. Per fortuna, tuttavia, Livio Romano è un narratore troppo furbo, e troppo divertente, da poter concludere la propria tragedia postmoderna su una morale precostituita: allora Parigino prende un’altra pillola e per la nostra gioia il romanzo continua.
mercoledì 18 aprile 2007
Nobiltà di sangue e nobiltà acquistata
Il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare. Basterebbe essere stati un poco poco attenti al liceo, durante le ore di Italiano, per capire che Alessandro Manzoni stava preconizzando l’ambrosiana Inter, abilmente camuffata da don Abbondio; non per niente tutti e due, a ben guardare, indossano un colletto bianco. Non solo il coraggio, significava Manzoni; ma l’autoconsapevolezza, la capacità di emergere nella difficoltà, la disinvoltura nella conquista e, perché no, anche un po’ di understatement. Tutte cose che l’ambrosiana Inter, con tutta la buona volontà, non ha più da tre lustri, e soprattutto non ha mai avuto quest’anno.
Avesse vinto la partita di oggi pomeriggio, abilmente mimetizzata in un orario tale che nessuno, tranne gli stessi sostenitori dell’ambrosiana Inter, se ne ricordasse, l’ambrosiana Inter avrebbe matematicamente vinto il torneo aziendale Telecom Pirelli, intitolato alla memoria di Guido Rossi. Avrebbe potuto sostituire all’indegna patacca che vanta al centro del petto un tricolore piccino piccino picciò da nascondere lì dove la maglietta si piega per entrare nel calzoncini. Avrebbe fatto rimpiangere ai più ragionevoli dei suoi tifosi le vittorie degli anni in cui la concorrenza su vasta scala non era limitata all’Empoli e al Palermo.
Passa lu tiempo e lu munno s’avota, scriveva Salvatore Di Giacomo, ma l’ambrosiana Inter non cessa di dare soddisfazioni ai tifosi delle squadre avversarie. I miei amici ambrosianainteristi, tanto prodighi di condoglianze a seguito dei due derby, si sono eclissati dopo Bayern – Milan 0-2 (le ultime notizie che ho di loro sono: “Tanto mercoledì perdete”; aiutateci a ritrovarli), hanno conservato un preoccupante silenzio e benché sollecitati non hanno proferito risposta alcuna. Un mese fa volevano spaccare il mondo; e ora che il mondo sta spaccando loro?
La Roma non è nuova a queste imprese. Nell’aprile del 1999 mi ero preso alcuni giorni di vacanza all’interno dei quali avevo inserito gli ultimi cinque minuti di derby all’Olimpico, ai tempi in cui aprivano i cancelli e facevano entrare gratis in extremis. La Lazio più forte della storia (almeno così sostenevano) mangiava lo scudetto a grandi morsi; se non che nel derby crollano (casualmente anche in questa circostanza la Roma aveva vinto 3-1) e piano piano lo scudetto se ne va. Totti si alzò la maglietta e c’era scritto: Vi ho purgato ancora. Io cantavo Grazie Roma abbracciato a degli sconosciuti sudatissimi nei distinti giallorossi e oggi – senza distinti sudaticci e senza Olimpico attorno – ho canticchiato nuovamente solo solo come un pazzo zompettando per i giardini del college.
Perché i tifosi dell’ambrosiana Inter, se non sono tutti morti di crepacuore come invece parrebbe stando al mio telefonino, diranno magari: “Vabbe’, vinciamo lo scudetto domenica a Siena”. Se anche fosse (e ho i miei dubbi) non sarebbe la stessa cosa, non ci sarebbe lo stadio tutto esaurito, non ci sarebbero tutte quelle bandiere già pronte con la scritta 15 sul tricolore (che mi hanno tanto, tanto ricordato le bandiere con la scritta Inter Campione d’Italia 2002). Ma come sempre il capolavoro è nel dettaglio: per dare uno spessore decente alla vittoria nel torneo Telecom Pirelli, la stessa ambrosiana Inter si era proposta due traguardi storici: non perdere nessuna partita e mettere insieme 100 punti. Oggi hanno perduto, e pazienza: la Storia ha voluto che il record dello scudetto senza sconfitta restasse al Milan del 1992, quando gli avversari erano, tanto per dire, la Juventus di Trapattoni e Baggio e la Sampdoria finalista in Champions League. Hanno ottantuno punti e mancano sei partite: le vincessero tutte, arriverebbero a 99. Pazienza.
Il fatto è che appunto, come scriveva Manzoni, il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare. Un giornalista spagnolo di cui dimentico il nome con preoccupante puntualità disse un giorno che il Real Madrid, o il Milan o la Juventus, è come il cavaliere nero del film I Monty Python e il Sacro Graal: prostrato quantunque, fatto a fette e ridotto a un tronco senza più né braccia né gambe, vuole ancora combattere e vincere perché è consapevole, di là dal rovescio contingente, della superiorità che gli deriva dal proprio blasone. Oggi l’ambrosiana Inter ha dimostrato di saper perdere anche senza intercettazioni: perché quand’anche il caso o gli oscuri maneggi la facciano precipitare davanti a Juventus e Milan, nella sua anima alberga la certezza - inconscia e inamovibile - che se vuole salire sul loro stesso cavallo ha da star dietro.
martedì 17 aprile 2007
Tormento e consolazione
(copyright Stilos: il quindicinale dei libri)
La frase più rivelatrice dell’esordio di Rosella Postorino non è contenuta nel romanzo ma nei ringraziamenti finali: “Se non riuscirò a scrivere, sarò sempre infelice”. Banalizzando per certi versi la polarizzazione, potremmo dire che esistono due tipi di scrittori, quelli per i quali la scrittura è tormento e quelli per i quali la scrittura è consolazione. Rosella Postorino dichiara apertamente di appartenere a questa seconda categoria, e che dunque per lei la scrittura è estromissione di sentimenti a lungo interiorizzati, covati, masticati quasi e poi – immagine cruda ma che rende l’idea – sputati sulla carta.
La Stanza di Sopra è il lento sfogo di Ester, adolescente il cui padre ammalato giace immobile e muto da un tempo che sembra eterno, così che la sua presenza in casa sia quella di un morto ancora vivo. Intorno a Ester ruotano sua madre, che non si rassegna alla propria sconfitta, un’amica che è il suo esatto opposto e un discreto numero di ragazzi che la protagonista ha l’abitudine di provocare senza mai appagarli del tutto. Tuttavia, la storia di Ester è interamente incentrata su Ester stessa, sui suoi sentimenti appena abbozzati, sulle sue reazioni sconsiderate; non a caso, a ben guardare, Ester è l’unico personaggio del romanzo che abbia un nome proprio, mentre gli altri vengono tutti definiti in relazione a lei, in quanto suoi parenti, suoi amici, suoi amanti.
Ester è il centro di sé stessa e la sua vita, pagina dopo pagina, consiste nella ricerca di un “amore ordinato”, così come la protagonista stessa lo definisce, o in altri termini di qualcuno che si prenda cura di lei, che non l’abbandoni a sé stessa. Inscindibilmente, la sua ricerca diventa quella di un’altra figura paterna, che Ester troverà nel padre della sua amica, e soprattutto il disperato tentativo di rimuovere un senso di colpa riguardo alla malattia del padre che Ester sente connaturato a sé stessa, così come viene rivelato dai frequenti flashback sull’infanzia nel corso dei quali la protagonista narratrice parla di sé stessa come “la bambina”.
La terza di copertina non ne rivela l’età precisa, ma la gioventù di Rosella Postorino fa presagire ampi margini di crescita. Lo si evince dal suo stile fatto di brevi paragrafi e di frasi spezzate, che alle volte funziona bene (soprattutto nei flashback, quando Ester pare considerarsi dall’esterno, frapponendo la distanza della crescita) alle volte funziona meno (ad esempio quando ha la visione di “papaveri come grida bocche spalancate lingue che hanno leccato il gelato alla fragola capezzoli turgidi nasi sanguinanti gole”). Altrettanto la scelta di una trama molto difficile a svilupparsi, dato che vive della completa immobilità del padre configurando di conseguenza un tempo sospeso, in cui parole e azioni sembrano galleggiare nel vuoto, e tanto più la lunghezza del romanzo, da un lato breve abbastanza da non consentire all’autrice cali di tensione narrativa, dall’altro sufficientemente lungo da far correre il rischio di qualche pleonasmo.
Trattandosi in generale di un esordio ben scritto, purtroppo risaltano maggiormente due tendenze dalle quali penso che la Postorino non farà fatica a liberarsi presto. Innanzitutto qualche ricaduta in una banalità cronachistica, aggiunta a bella posta per dar maggior spessore al personaggio di Ester e che invece per certi versi lo appiattisce: accade ad esempio dove indugia sui suoi disturbi alimentari e sulle sue “ossa sporgenti”, argomento che avrebbe meritato o un’attenzione maggiormente circostanziata oppure una completa ellissi narrativa che lasciasse intuire ciò che invece viene detto esplicitamente e sinteticamente. In secondo luogo, un certo maledettismo che qua e là traspare dal personaggio di Ester e che non sembra differenziarlo da una diffusa tendenza della narrativa giovane italiana, quasi anzi che la Postorino temesse in qualche modo di discostarsi da essa. Al contrario, calcare la mano su questa distinzione sarebbe stato un pregio ulteriore de La Stanza di Sopra.
In definitiva l’esordio di Rosella Postorino è più interessante proprio dove l’autrice non si concede al dejà vu del disagio giovanile, della vacuità del sesso, delle giornate tutte uguali. Come conferma la frase contenuta nei ringraziamenti, il meglio della Postorino consiste nel consolatorio e disperato rimuginare sui sentimenti, nella continua e tacita contemplazione del padre immobile, nella riproposizione del passato in un ardito collage narrativo. Quando non scrive degli avvenimenti ma descrive il riflesso degli avvenimenti stessi, le ferite che lasciano sul cuore.
L'Italia percepita
lunedì 16 aprile 2007
Il vestito nuovo dell'ambasciatore
A quest’uopo cade perfetta l’orecchia di pagina 24: “Gorbaciov sembrava Mosè, pensò, il profeta incapace di entrare nella terra promessa”. In una riga c’è tutto: la tragedia del singolo; il parallelo asimmetrico con la Bibbia; un giudizio politico implicito (Gorbaciov stava cercando di rendere terra promessa la terra dove già viveva) con annesso slittamento spaziotemporale (non più di geografia si tratta, ma di storia); l’ironia di Salman Rushdie nel mischiare l’alto e il basso, il consueto e il difforme (come quando ne I Versi Satanici genialmente s’inventò la dea del cinema indiano, Grace Khali). Poi c’è l’inciso pensò che attacca la retta Gorbaciov, che procede per fatti suoi, alla circonferenza chiusa in sé stessa della storia privata della figlia dell’ambasciatore, la quale lo vede in tv e pensa.
domenica 15 aprile 2007
Diciamoci la verità
“So you read the Guardian, then?”. Oxford è talmente noiosa che, a meno di voler spendere ogni giorno trentadue sterline e cinquanta in vestiti inutili, la cosa più divertente che si possa fare è leggere il giornale. Nella fattispecie, la mia ex collega anglocanadese è notevolmente sorpresa del fatto che un conservatore-monarchico-teocratico della mia risma non legga il Daily Telegraph bensì il Guardian (di domenica l’Observer) che è di orientamento progressista-snob. Ci sono due ragionevoli spiegazioni a questo evento meraviglioso. La prima è che, pur non essendo progressista per un cazzo, sono oltremodo snob. La seconda è che in Inghilterra leggo il Guardian (o meglio: the Guardian) per la stessa ragione per cui in Italia leggo il Foglio (o meglio: the Foglio), ossia perché è il giornale meglio scritto che ci sia sul mercato, anche se devo ammettere che le poppute signorine sulla terza pagina del Sun (o meglio del the Sun) costituiscono una quotidiana tentazione.
Ciò di cui si vanta particolarmente il Guardian, che non a caso è progressista e snob, è la netta distinzione fra la notizia e le opinioni al proposito. Se pure non ci hanno mai pensato, un ottimo slogan per lanciare il Guardian sarebbe che ci trovi le notizie di tutti gli altri quotidiani, e i commenti che non trovi in nessun altro quotidiano. Ieri, ad esempio, la notiziona da prima pagina era un’intervista a Gordon Brown. Com’è noto, Gordon Brown sta per abbattersi sulla Gran Bretagna non appena, fra un mesetto circa, Tony Blair gli lascerà la poltrona da primo ministro, e intorno alla poltrona tutta la casa di 10 Downing Street. Per chi non lo sapesse, Gordon Brown è una delle tre persone che riuscirebbero a governare peggio di Prodi (le altre due sono Ahmadinejad, che non è cattivo ma lo disegnano così, e il conte Attilio, cugino di Don Rodrigo). Per di più, Brown è pure scozzese: ragion per cui in Inghilterra lo ritengono una disgrazia più o meno inevitabile, soprattutto i laburisti. Se non che gli inglesi non lo sanno, ma anche loro hanno un Walter Veltroni (o meglio: Valter Weltroni): si chiama David Miliband, è giovane, dicono che sia carino e ha l’enorme merito politico di avere un blog. Inoltre ha il pregio non trascurabile di chiamarsi David come Cameron, e di poter così sperare in qualche confusione nelle sacche più rincoglionite del sempre più preponderante elettorato conservatore. Altri suoi pregi non mi vengono in mente. Ah, è meglio di Gordon Brown.
Non che ci voglia molto, a dire il vero. L’intervista di Brown sul Guardian (o meglio: the intervista di Brown), rivelava ieri già nel solo titolo che “la Gran Bretagna s’è disamorata della celebrità”, o meglio – spiega il povero Brown, ritratto di profilo con un’espressione sconsolata e la didascalia, giuro, “guardando il futuro” – la Gran Bretagna s’è disamorata delle persone che sono famose per la loro stessa celebrità, per essere passate in tv senza meriti particolari; la Gran Bretagna ha imparato ad apprezzare il lavoro sotterraneo e a valorizzare la serietà dei civil servants. Gli inglesi non lo sanno, ma qualche spin doctor di Gordon Brown dev’essersi accorto che questi è perfino peggio di Prodi e ha deciso di superare il maestro, riproducendone pari pari l’ultima (apparentemente vittoriosa) campagna elettorale. Ripensate al marzo 2006: lo slogan di Prodi era “La serietà al governo” (perché poi andasse in giro strombazzando su un tir giallo canarino non è dato saperlo); la contrapposizione che l’Unione rivendicava nei confronti della Casa delle Libertà era sostanzialmente: “noi siamo persone serie, voi venite votati dai teledipendenti”. Insomma, ieri the Guardian sembrava the Repubblica.
“Così tu leggi il Guardian, eh?”. Tant’è vero che gli editoriali, che si conclamano separati dalle notizie, a pagina 30 (titolo: “Getting serious”) individuavano più che un parallelismo l’incarnazione dell’amore per la celebrità a buon mercato. E qual era? Andare a comprare i vestiti da Primark. Giuro, l’ho letto cinque volte prima di rendermi conto che non si trattava di un’allucinazione (come invece quella di aver preso stanotte il caffè col Papa). Stando a the Guardian e stando a Gordon the Brown, l’Inghilterra si sta disamorando della celebrità facile e della televisione vacua e degli sconti di Primark (cinque mutande a due sterline e cinquanta, mica pizza e fichi), e se ce l’avesse si disamorerebbe anche di Berlusconi. L’Inghilterra, questa landa di mattacchioni, sta diventando seria, come Gordon Brown vorrebbe apparire nella foto in prima pagina nella quale guarda il futuro con l’intensità del plurisuicida.
Oxford è un posto talmente noioso che non c’è nemmeno una diciassettenne che, come invece avvenuto a Durham, abbia pensato bene di approfittare dell’assenza dei suoi genitori per dare un enorme party nell’enorme tenuta in cui abita, dandone notizia su MySpace. Se non che qualcuno è intervenuto cambiando il senso dell’annuncio, che alla fine suonava grossomodo: vediamoci a Durham per devastare la tipica casa posh e altoborghese. Risultato: i genitori tornano e trovano la figlioletta (e soprattutto la casa) immersa in vomito, etc., etc.; e tutto ciò che il giorno prima era sano improvvisamente era rotto, per danni complessivi che ammontano a ventimila sterline, molto più delle trentadue e cinquanta che ho colpevolmente speso ieri. Domanda legittima: anche questa diciassettenne, a detta di Gordon Brown, si è finalmente disamorata della facile celebrità? A vedere la foto sembrerebbe di no, anche se il the Guardian non specifica se i suoi vestiti (e soprattutto i suoi occhialoni da sole, che la rassomigliano a Jeff Goldblum ne La Mosca, o meglio: The Mosca) siano stati comprati da Primark. In tal caso, anche se dovrei sentirmi in concorso di colpa, i miei acquisti non mi impedirebbero di pensare che avere figli cretini alle volte è il prezzo della democrazia. Della benevolenza, della tolleranza, dell’openmindness; della serietà, per certi versi. Chi sfascerà the Inghilterra, Primark o Gordon Brown?
venerdì 13 aprile 2007
Esuli
Una signorina di Gravina che invece studia a Pavia da tre anni (o meglio: una signorina di Gravina che tre anni fa io ho portato di peso a studiare a Pavia) dopo Pasqua è rientrata nell’appartamento che condivide con altre tre studentesse e una di loro le ha detto: “Guarda, guarda le risaie: sembra il mare”. E la signorina gravinese: “Un ritaglio, Ele, un ritaglio di mare.”
Dalla Francia, risponde ai miei auguri – o meglio a un mio predicozzo in difesa del cattolicesimo spinto – un’amica di qualche anno fa che è di Parigi ma vive a Clichy, una delle ultime persone delle quali sia valso la pena insistere per avere un numero di telefono, una mail, qualcosa insomma che salvi dall’oblio perenne. E scrive: “Tanti auguri a te!” (confondendo, forse deliberatamente, la Pasqua di Risurrezione col mio compleanno). “Spero che tutto vada bene malgrado il tuo esilio a Oxford. Da noi, tranne il nostro ateismo, c’è stata una Pasqua deliziosa, tra giochi di badminton e lunghissime passeggiate in campagna”. The mockery of it, Joyce avrebbe scritto, cioè che canzonatura: è atea nonostante che sia una prova dell’esistenza di Dio.
Vicky è lettone (basta con la solita battuta sessuo-maschilista; è lettone con l’accento sulla e) ma si sente più Italiana di me, alle volte e soprattutto quando la Pasqua ortodossa e quella cattolica cadono insieme come quest’anno. Prende il caffè, prende l’aperitivo, al sabato va al centro commerciale e ogni giorno – che io sappia è il suo unico difetto imperdonabile – legge la Repubblica. Saranno dieci anni che sta in Italia, e le calza come un guanto; sarà un anno che mi conosce e che mi ripete: “Insomma, vorrei che ti divertissi di più”. Tradotto, mi augura di diventare più italiano, più facilone, più rilassato; in tal caso non mi sorprende di essere finito in Inghilterra, sperduto come la Roma a Manchester, e il cerchio si chiude.
mercoledì 11 aprile 2007
Dormire, morire?
Nonostante il mio auspicio, tuttavia, gran parte degli autori viventi continua a sopravvivere senza vergogna né rimorso alcuno, ponendomi di fronte a serie ambasce nel momento in cui si tratta di decidere se acquistare o meno un loro nuovo libro. Oltre che nevrotico, infatti, io sono un lettore universale e tendo, negli anni o nei mesi, a leggere tutta la produzione di un autore in gran successione; cosa consolante se accade, che so io, per Dickens o per Flaubert, i quali riposano in pace da un bel po’; cosa invece assolutamente sconfortante se si tratta di Ian McEwan o di Michele Mari e così via; di modo tale che passo buona parte della mia vita nel terrore che prima o poi uno qualsiasi dei miei autori preferiti pubblichi un altro romanzo, come poi regolarmente accade.
Basicamente, ci sono tre motivi per comprare tutti i romanzi di uno stesso autore. Il primo motivo è che l’autore rientra nel ristretto empireo di persone delle quali si riconosce sia l’indiscusso talento letterario generale sia la capacità di raccontare storie che risultano sempre vicine a chi, nel particolare, le legge. Il secondo motivo è che, indipendentemente dal talento e dalla vicinanza, si è sentito parlare talmente tanto del tale autore da finire per accumulare tutta la sua produzione in serie nell’attesa di leggerla un dì, con il duplice vantaggio estemporaneo di potere: a) fingere di averla già letta dopo uno sguardo alla quarta di copertina, b) di farne bella mostra in salotto quando vengono gli amici intellettuali e darsi un tono di superiorità dicendo: “Se vuoi te li presto”.
Il terzo motivo è quello per cui sto scrivendo in quest’istante. Esistono degli autori per i quali ci si rende conto subito che non hanno alcuna pretesa letteraria (non perché non abbiano talento; ma perchè proprio non pensano all’alta letteratura quando scrivono, e grazie a Dio visti i risultati di alcuni pretenziosi magniloquenti) e che la storia che narrano – lungi dall’essere tanto profonda da sentirla universale e tangibile – è amabilmente superficiale e come tale si può attagliare a qualsiasi genere di lettore, tranne ovviamente i rabdomanti che cercano, peggio per loro, l’alta letteratura comunque e dovunque. Per mia (e vostra) fortuna non sono fra questi, e ho alcuni autori di cui non posso fare a meno di leggere qualsiasi cosa, senza che da parte né mia né loro ci sia la pretesa (né l’attesa) di avere per le mani il finalmente-grande-romanzo-che-muterà-le-sorti-della-letteratura-italiana-europea-e-interplanetaria. Un esempio è Luciano De Crescenzo. Un altro esempio è Hellen Fielding, che un paio d’anni fa mi costrinse addirittura a cercare la sua rubrica ogni giovedì su The Independent, che è la Bibbia dell’infedele britannico. Un terzo esempio è David Nicholls.
David Nicholls nasce come autore televisivo e cinematografico, ma nel 2003 ha voluto provare la strada del romanzo con Starter for 10, un divertimento che l’anno dopo è stato tradotto da Sonzogno come Le Domande di Brian. Leggero, innocuo, tenero, ricordo di averlo preso in mano un pomeriggio estivo con un certo scetticismo e di essermi ripetuto: “Un altro capitolo e poi smetto”, finché non l’ho finito tutto. E alla fine mi sono posto la domanda: perché mi è piaciuto più di altri romanzi – tecnicamente parlando – scritti meglio? Forse perché era estate? Forse, più probabilmente, perché era abbondantemente divertente? Forse perché appariva lampante che l’obiettivo di Nicholls non fosse di dimostrare quant’è bravo a scrivere (o, reazione uguale e contraria, dimostrare quant’è bravo il lettore a star leggendo) ma soltanto intrattenere, far passare il tempo?
Ci sono dei romanzi che, richiusili, fanno venir voglia di chiedere indietro i soldi; ma, paradossalmente, se pure l’editore (o, come io preferirei, l’autore) ripagasse di tasca propria il disturbo, resterebbe sempre l’insoddisfazione per aver perduto delle ore, dei giorni magari, a tentare di venire a capo di qualcosa che non meritava più che uno sguardo alla copertina. Ci sono invece dei romanzi che, quando li chiudiamo, fanno venire voglia di permuta; tradotto, di andare dall’editore (o, come io preferirei, dall’autore) per dargli indietro la copia e chiedergli in cambio un romanzo nuovo, e poi un altro, e poi un altro, e così via fino alla fine dei tempi. È il segreto dell’intrattenimento. Fosse stato per me, avrei costretto David Nicholls a continuare a scrivere un romanzo dietro l’altro, fino alla (sua) morte per consunzione. Tuttavia sono segretamente altruista, e mi sono limitato a cercare altri titoli su ogni possibile catalogo; non ce n’erano, e così ho dovuto soltanto attendere fino a che...
Fino a che, diranno i miei istruiti lettori, qualche giorno fa la Sonzogno ha messo in vendita Una Botta di Fortuna, ossia il secondo romanzo di Nicholls. No: ho dovuto attendere fino a che non sono arrivato a Oxford, un paio di settimane fa, e la prima cosa che ho fatto (a parte la doccia) è stata andare da Blackwell’s e comprare The Understudy, ovvero la versione originale dello stesso romanzo, tentazione troppo forte per riuscire a resistere quei pochi giorni che mi separavano ancora dall’edizione italiana. Basti sapere che è la storia di Steve McQueen – “bum!”, diranno i miei istruiti lettori. Macché, è proprio la storia di Stephen C. McQueen, uomo dal nome sfortunato, che per giunta vuol fare l’attore e, poiché non ci riesce, si limita a fare l’understudy, ossia quello che in Italiano si chiamerebbe il generico, colui che viene buono per qualsiasi ruolo muto (il cadavere o il fantasma mascherato, nella fattispecie) e che dev’essere pronto a sostituire il protagonista sapendo a memoria tutte le sue battute. Ovviamente il protagonista non si assenta mai.
Nel romanzo di Nicholls, il protagonista non si assenta mai perché è una specie di superuomo metrosexual; è il celebratissimo Josh Harper, giovane, bello, ricco, felice e sposato con una donna meravigliosa, della quale lo pseudo Steve McQueen s’innamora già dalla quarta di copertina dell’edizione inglese (e immagino anche di quella italiana). Stare a specificare che questa situazione dà vita a tutta una serie di episodi surreali e ridicolissimi mi sembra ridondante. Invece mi sembra più utile, per me e per voi, rimarcare che David Nicholls ha una capacità davvero notevole nella scrittura dei dialoghi, un po’ perché nasce come sceneggiatore (e sceneggiatore seriale, per la tv, così da non avere tempo abbastanza da farsi venire le crisi da pagina bianca) un po’ perché i fin dei conti l’Inghilterra è la patria del conversation novel.
Ciò che mi ha più piacevolmente sorpreso è che Nicholls abbia riproposto in Una Botta di Fortuna lo stesso schema sotteso alla trama de Le Domande di Brian. Carenza di idee? Non credo – proprio per quel che riguarda il suo nascere come autore televisivo. Sono sicuro invece che abbia voluto prodursi in una specie di variazione sul tema; come alcuni di voi ricorderanno (e chi non l’ha letto vada a comprarselo adesso, invece di perdere tempo su internet) il protagonista de Le Domande di Brian era un ragazzino che perdeva via via le proprie certezze posto di fronte alla realtà (tristanzuola) della vita universitaria; soprattutto, la comicità del romanzo stava nel tentativo di commisurare il mondo alle proprie (ingenue) aspettative e parallelamente di attendere il momento in cui egli stesso avrebbe soddisfatto le (molteplici) aspettative del mondo, superando gli esami, rendendo felice la mamma, fidanzandosi, etc.
Steve (C.) McQueen vive la stessa tragedia; le proporzioni sono anzi maggiori, poiché l’attesa del suo grande momento è diventata non solo sfibrante e frustrante, ma per certi versi ormai inutile e superata. È come un calciatore che ha trascorso la sua carriera in panchina ad aspettare che il titolare si infortunasse; è un Amleto che tenta di ricordare il monologo a memoria. Il talento di David Nicholls sta secondo me nel riuscire a voltare la tragedia (per quanto piccola e domestica) in commedia; lasciare che il lettore giri le pagine per sapere, ad esempio, perché nell’armadio di Steve McQueen II sono nascosti un dvd per bambini, un premio per il miglior attore dell’anno e la figurina più rara di una collezione che non ha mai fatto - e che al contempo, sottotraccia, faccia un po’ sua la storia umana del protagonista, si immedesimi e la contempli dal di dentro. La continua alternanza fra l’umorismo (che necessita di uno sguardo esterno, critico, eventualmente iper-razionale) e il sentimentalismo fa in modo che né Una Botta di Fortuna né, a suo tempo, Le Domande di Brian né, con ogni probabilità, i prossimi romanzi di David Nicholls risultino monocordi come molti romanzi umoristici, come molti romanzi sentimentali. Per questo continuerò a comprarli, in svariate lingue.
domenica 8 aprile 2007
In partibus infidelium
Si tratta innanzitutto, di una Pasqua atipica, che sto trascorrendo non tanto forzatamente lontano da casa (non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta, e forse è pure meglio) ma soprattutto lontano da una temperie socioculturale che, per quanto traballante, resta comunque decisiva. Tradotto: in Inghilterra sono quasi tutti protestanti. La perplessità dei miei genitori riguardo al fatto che a Oxford ci sia una sola chiesa cattolica (magari non è così, ma è come se lo fosse) coincidono con la loro perplessità riguardo al fatto che a Oxford non ci siano trattorie (e a dire il vero ce n’è qualcuna, con la dicitura Italiano Tratoria sull’insegna e la lavagnetta che esclama: Steak alla griglia!). Ci sono delle cose talmente universali, alle nostre latitudini, da sembrarci assolutamente necessarie e come tali immediatamente esportabili.
Non è così. Il cattolicesimo in Inghilterra c’è, tant’è vero che ogni domenica mi servo (avrei potuto trovare un verbo più decente, me ne rendo conto, ma fra poco ho un appuntamento e quindi vado di fretta) dagli Oratoriani della chiesa di St Aloysius. Gli oratoriani, specifico, sono l’ordine fondato da San Filippo Neri non so quando nel XVI secolo, e se non erro sono l’unico ordine secolare i cui membri hanno l’obbligo di vivere in comunità, come in un convento di frati. Basta andare a messa alla domenica (alle 11, preferibilmente) per rendersi conto che in Inghilterra i cattolici sono pochi, ma incazzatisimi: messa in Latino, canto gregoriano, comunione in ginocchio. Noialtri Italiani che siamo allergici agli inginocchiatoi (basta fare un giro durante una qualsiasi messa in una qualsiasi chiesa dell’eucaristia) dovrebbe imparare da come i cattolici inglesi si inginocchino ogni volta che entrano nel banco, ogni volta che ne escono, immediatamente prima e immediatamente dopo la comunione, in attesa della messa e dopo la fine della messa, indipendentemente che sull’inginocchiatoio vi sia un cuscino o solo il legno, tanto che in mancanza di meglio stanno giù per interi quarti d’ora sul nudo marmo del pavimento; quando c’è l’elevazione dell’ostia consacrata, non contenti di stare in ginocchio, si può leggere nei loro occhi il desiderio di sotterrarsi.
(Dettaglio inquietante #1: ieri sera, verso la conclusione del triduo pasquale, il decano degli Oratoriani ha invitato a pregare per i nuovi battezzati, e va bene, per il Papa, e va benissimo, e per Sua Maestà la Regina Elisabetta, che è fra una cosa e l’altra il capo degli anglicani.)
Il contrasto è manifesto: da un lato, dentro la chiesa di St Aloysius, ci si è fermati al Concilio di Trento e il triduo pasquale è una delle esperienze che forse segnano maggiormente la coscienza del fedele, messe di due o tre ore al Giovedì Santo (il cosiddetto Maundy Thursday, ovvero il giovedì del mandato eucaristico), al Venerdì Santo (ovvero Good Friday) e alla veglia pasquale alla sera del Sabato Santo. Tre gradini dopo ciascuno dei quali non solo i celebranti sono sfiniti e i fedeli visibilmente rinnovati, e zoppicando (soprattutto quelli che come me hanno dovuto accontentarsi di inginocchiarsi sul nudo marmo mentre veniva cantato il Tantum Ergo, che è lunghetto) si avviano verso casa. Dall’altro lato, fuori dalla chiesa di St Aloysius, in tutto il resto di Oxford e presumibilmente dell’Inghilterra intera, Pasqua non esiste più. Sembrerebbe che ne sia rimasto solo il nome, ficcato nelle grida di Easter Grill, grigliate pasquali e sui bigliettini di auguri.
(Dettaglio inquietante #2: all’uscita dalla veglia pasquale, una signora ha dichiarato che secondo lei a un certo punto della messa, comunque dopo le prime due ore, Father Tal dei Tali era sul punto di chiedere una bottiglia d’acqua e un bicchiere di gin, per poter andare avanti.)
Sembrerebbe. I bigliettini in particolare sono deprimenti, lo so bene io che preferisco mandarli a Pasqua, piuttosto che a Natale. L’abominevole chiamata internazionale, oggi, era diretta a una mia amica che da un paio d’anni è entrata in un monastero di clausura (e perciò la chiameremo, tautologicamente, Clarissa, che fa anche un po’ Samuel Richardson) e che fra poco tempo diventerà novizia. Di solito, per Pasqua, a lei come ad altri amici e benefattori spedisco un bigliettino a soggetto religioso; in Italia, con qualche fatica e benché impolveratissimi, nei recessi delle cartolerie si riesce a trovarli. In Inghilterra, dove c’è il culto del bigliettino grazioso (diciamo cozy, così rendiamo l’idea) per qualsiasi possibile occasione (dal concepimento indesiderato alla morte violenta), nei negozi specializzati i bigliettini di Pasqua contemplano: uova; fiori; altre uova; signorine ammiccanti. E coniglietti, squadroni di coniglietti, infinità di coniglietti. Io però di mandare a Clarissa, nell’anno del suo noviziato, coniglietti uova e fiori non ci penso affatto (sulle signorine ammiccanti sono invece possibilista): pertanto ho rinunziato all’idea del bigliettino, che pure mi sarebbe costato modiche quattro sterline e cinquanta spese di spedizione escluse, in favore della rischiosa telefonata domenicale.
(Dettaglio inquietante #3: nella sezione Religious matter del negozio specializzato in cartoncini, l’immagine più frequente è un coniglietto che fra i fiori trova delle uova.)
A questo punto è facile intuire che l’assoluta assenza di Crocifissi e di Risorti dall’iconografia pasquale abbia a che fare con l’anglicanismo e più in generale il protestantesimo. Come tutte le cose facili, è sbagliata. Ha a che fare con il politically correct: in Inghilterra le minoranze sono diventate maggioranza, e questo non è criticabile in alcun modo, è materia meramente demografica; in Inghilterra per rispetto alle minoranze preponderanti le tradizionali feste religiose stanno venendo svuotate di senso, stanno diventando talmente pallide da scomparire. Buona parte dei negozi di cui sopra, nelle vetrine espone non già gli auguri di buona Pasqua, Happy Easter, ma per il Bank Holiday Weekend, sarebbe a dire per il weekend col lunedì libero. Chi, come me nel 2005, ha avuto la disgrazia di essere da queste parti sotto Natale, ha avuto più e più volte il desiderio di sbattere la testa contro il muro sentendo per le strade (e vedendo sui manifesti, sulle pubblicità, sugli avvisi dei college) il saluto Merry Christimas, buon Natale venire sostituito da Merry Festivities, buone festività.
(Dettaglio inquietante #4: dopo aver rinunziato all’alcol e soprattutto ai dolci per tutta la Settimana Santa – per tutta la quaresima no, purtroppo non riuscirei a sopravvivere – oggi tutto contento entro in una patisserie e ordino un chocolate brownie, cioè un mattoncino di cioccolato grande quanto la mia mano ma pesante quanto la mia figura intera. Il tizio alla cassa si fa pagare, sorride, piglia il dolce, lo incarta e me lo dà. Mi apparto per mangiarlo in santa pace e scopro che di tutto si tratta meno di un chocolate brownie: è probabile che il tizio alla cassa, quasi sicuramente straniero e molto probabilmente italiano, non abbia capito una cippa di quello che gli ho chiesto e abbia scelto un dolce a caso. Nel momento in cui sto per tornare a porgere le mie rimostranze, una signorina si accomoda al tavolino di fronte, scarta il suo dolce e lo considera con un misto di sorpresa e incredulità. Ho rinunziato.)
Il più grande ceffone alla Gran Bretagna che il nuovo secolo possa ricordare, finora, è stato dato dall’Iran qualche giorno fa: non so quanto se ne sappia in Italia, ma prima sono stati rapiti dei marinai col pretesto che si trattasse di un arresto nell’ambito di un’operazione di controspionaggio; dopo di che, trascorse un paio di settimane, il satrapo Ahmadinejad (fidarsi del quale è come lasciarmi guidare un’automobile) ha promesso la loro liberazione come gesto distensivo ed ecumenico in occasione della nascita di Maometto (il 30 marzo) e della Pasqua cristiana. Fossero stati coerenti, gli Inglesi avrebbero dovuto rispondere che la Pasqua loro non la festeggiano, e che si accontentano del compleanno del Profeta.
(Dettaglio inquietante #5: quando ho chiamato la mia amica in monastero, la suora portinaia le ha passato il telefono dicendo: “Clarissa, c’è tuo marito.” Ma ormai dal cattolicesimo mi aspetto di tutto.)
martedì 3 aprile 2007
Andorra
Breve ma necessaria premessa autobiografica: al momento sono ospite di un college di Oxford (semivuoto per via delle smisurate vacanze pasquali di cui godono gli studenti locali) e mercoledì sera ero tutto contento perché in serata la BBC2 avrebbe trasmesso Italia-Scozia. Alle otto meno un quarto (per via del fuso orario) ho acceso la tv e mi sono piazzato sul divano del college bar; se non che alle otto meno cinque sono apparsi tre studenti inglesi (cioè un giapponese, un indiano e un giamaicano) il cui interesse per Italia-Scozia era pari al mio interesse per gli schemi del punto croce. Dopo una rapida consultazione, e tenendo presente che tre inglesi di varia nazionalità ci mettono nulla a picchiare a sangue un italiano, abbiamo deciso di cambiare canale e così Italia-Scozia si è trasformata in Andorra-Inghilterra.
Per anni ho sognato, quand’ero ragazzino, che l’Italia venisse sorteggiata nel più scabercio girone di qualificazione, con dentro almeno una fra San Marino, Liechtenstein o appunto Andorra (Lussemburgo era già troppo forte); e per questo sto aspettando con trepidazione il momento in cui incroceremo le Isole Far Oer, sempre ammesso che esistano veramente e non siano invece una rappresentativa di scapoli e ammogliati amici di Joseph Blatter. Non solo dunque ero contrariato dal repentino cambiamento di canale, ma ero soprattutto invidioso dell’evenienza che i tre inglesi multiculturali potessero fingere interesse e sofferenza per una partita il cui risultato (dieci, cento, mille a zero) era scritto prima ancora del fischio d’inizio. Mentre la ruvida Scozia, quella sì che era sofferenza.
Peraltro in Inghilterra, quando non si lavora, la cosa più interessante da fare è leggere il giornale; tale lettura mi aveva insegnato che per gli inglesi la partita contro Andorra era veramente motivo sia di interesse (perché la classifica del loro girone di qualificazione non è particolarmente sorridente) sia di sofferenza (perché tanto per dire tre giorni prima avevano pareggiato 0-0 con Israele, che non è propriamente l’invincibile armata). Vabbe’, mi son detto io e si son detti i tre inglesi multicolori (ognuno nella propria versione di lingua inglese), adesso si gioca contro Andorra, la si massacra vincendo dieci, cento, mille a zero, e passa la paura.
L’invidia è andata progressivamente aumentando, poiché il problema dell’Inghilterra si chiama Steve McClaren ed è il signore biondino seduto in panchina. Era l’assistente di Eriksson ma da quando lo ha sostituito è diventato un personaggio storico, in quanto ha privato il calcio inglese della sua caratteristica peculiare, ossia la capacità di assaltare il nemico – pardon, l’avversario – sempre e comunque, anche nella più nera situazione. Man mano che il tempo passava e Andorra non si scopriva e perfino l’Italia andava in vantaggio con maggiore autorevolezza, l’Inghilterra (intesa come squadra) veniva percorsa dall’autentico terrore di giocare, ossessionata dall’idea di star pareggiando contro Andorra, e presumibilmente più impegnata a pensare a chi avrebbe sostituito Steve McClaren entro il fine settimana. Nel frattempo l’Inghilterra (intesa come nazione intera rappresentata sia dai sovrabbondanti tifosi in trasferta sia dai tre cosmopoliti sul divano), una volta finito il primo tempo sullo 0-0, provvedeva a salutare il risultato storico con perifrasi che, poiché temo di essere letto anche da delle signorine, preferisco non trascrivere.
L’intervallo è stato irreale. L’Italia vinceva 1-0 sulla Scozia e, stando al quarto d’ora che abbiamo guardato sulla BBC2, giocava anche benino. Io non sapevo che dire, e non perché non conosco la lingua. I tre pseudo-inglesi, alle nove esatte, hanno nuovamente cambiato canale scusandosi reiteratamente e per poco non mi sfuggiva che capivo le loro ambasce, che effettivamente contro Andorra era più difficile che con la Scozia. Fortunatamente ho taciuto.
Nel secondo tempo san Steven Gerrard s’è caricato la croce e con due goal uno più bello dell’altro ha raddrizzato la storia riconducendola sui binari della retta ragione. Gli stessi inglesi di cui sopra hanno avuto il coraggio di esultare smodatamente quando Nugent, alla sua prima partita con la maglia bianca, ha segnato il 3-0 calciando un pallone che vagava solingo sulla linea di porta, a testimonianza delle sofisticate tattiche difensive degli andorrani, sempre ammesso che si chiamino così. Di modo tale che, nonostante il suo ardimentoso tentativo di pareggiare, Steve McClaren s’è salvato e probabilmente non verrà licenziato prima di giugno; ma la cosa più buona e giusta l’ha detta David Platt, indimenticabile campione di un Bari miseramente retrocesso nel 1992 e attualmente commentatore tecnico su Sky versione inglese: “Non importa che sia contro Andorra, quello di Gerrard è grande calcio giocato da un grande calciatore”.