sabato 31 ottobre 2009
Eventi piegati e braccia d'inchiostro
giovedì 29 ottobre 2009
Siam pronti alla morte?

mercoledì 28 ottobre 2009
Cinquanta di questi Cav.

Dieci piccoli indiani
Prodi
Fassino
Cofferati
Veltroni
Franceschini
Marino
Rutelli
Bersani
Bindi?
D’Alema?
martedì 27 ottobre 2009
Habemus copertinam
Chanson d'amour
(Matia Bazar, Souvenir)
Accade che Real-Milan sia sempre in differita, sia sempre la replica della finale del ’58 che avrebbe potuto uccidere il filotto delle cinque Coppe biancovestite e contribuì invece al mito dei semidivini Kopa, Di Stéfano e Gento. In un Heysel che ancora non era l’inferno il Real vinse la sua terza Coppa filata con un 3-2 ai supplementari. (Di quel Real, sono fiero di dirlo, Javier Marías mi mandò qualche anno fa la fotocopia delle figurine per ringraziarmi di una recensione). Iniziò allora la rincorsa del Milan, che impiegò trentun anni per compiersi: ché la terza Coppa del Milan arrivò ufficialmente nella finale contro
Mercoledì sera il Milan era al Bernabeu con gli stessi pantaloncini neri contro il candidissimo Real. Il calcio, si sa, è soprattutto una questione di maglie. Il 5 aprile 1989 un volo di Hugo Sanchez in coda al primo tempo aveva dato l’impressione che la buona volontà di Berlusconi e Sacchi non sarebbe stata ripagata e che l’arcaico mito del Real sarebbe rimasto inarrivabile grazie ai buoni uffici del Real vivo e concreto dell’epoca. Quella squadra non era mica male, d’altronde: era il Real della Quinta del Buitre (Butragueño, Michel, Sanchis, Martin Vazquez e Pardeza che non se lo ricorda mai nessuno); iniziava con la cantilena Buyo, Chendo, Solana; aveva vinto due Uefa di fila non più tardi di tre anni prima e alla stagione precedente aveva disinvoltamente estromesso al primo turno il volitivo Napule maradonesco. Quando Van Basten pareggiò – e 1-1 fu fino alla fine poiché vincere al Santiago Bernabeu era come minimo impossibile – si capì che per le due settimane fra andata e ritorno il destino sarebbe rimasto in bilico e
Ma il calcio, si sa, è soprattutto questione di maglie e a San Siro il Real fece l’errore di presentarsi in completo blu. Ora, ditemi voi, che credibilità può avere una sposa vestita di blu? Un Papa vestito di blu? Un Real vestito di blu non sortiva miglior figura. Quando sul tabellone apparve il risultato finale, c’era scritto un pertondo 5-0 ma doveva invece leggersi “punto di non ritorno della storia”. Le grandi d’Europa – in quell’Europa post-Heysel del beato embargo antibritannico – le grandi d’Europa erano due.
Forse non ricordate che l’attuale caravanserraglio della Coppa dei quasi Campioni, oggi accessibile anche ad arrivare quarti in Francia, iniziò col sorteggio malandrino che l’anno dopo ricollocò il Real sulla strada del Milan eurocampione. Lo collocò agli ottavi e non era una rivincita, era
Né mi pare un caso che Milan e Real abbiano nobilmente rifiutato di incrociarsi in Europa per vent’anni esatti, come a esprimere sdegno per questa Coppa extralarge che loro stessi hanno voluto ma che tradisce Di Stéfano e Schiaffino, Butragueño e Van Basten. Il calcio, si sa, è soprattutto una questione di maglie e quelle di Milan e Real non sono legate dallo sponsor accidentalmente uguale: sono state scambiate all’Heysel cinquantun anni fa come una promessa di eterna reciprocità, di amore forse.
Così Real-Milan è sempre in differita, fu sempre giocata con lo sguardo indietro e ora una ora l’altra squadra è stata di volta in volta Orfeo ed Euridice. Il primo Milan di Berlusconi voleva inseguire il mito dei blancos pentacampioni. Il Real delle ultime tre Coppe ad anni alterni voleva scacciare le ombre rossonere che si erano allungate sul continente a fine secolo.
Per questo il secondo tempo registrato, mercoledì scorso, viveva di vita propria e indipendente da Dida e Kakà, che vanno bene per le chiacchiere da lounge bar. Per questo i miei recenti vicini di casa, che mi sanno persona tranquilla e morigerata, si saranno fatti un’idea del tutto innovativa sui miei rapporti interpersonali dopo avermi sentito per tre quarti d’ora battere sul materasso e urlare attraverso muri di cartapesta: “Aaaah! Sì! All’improvviso!” (1-1 di Pirlo); “Sì! Sì! Ancora, così!” (1-2 di Pato); “No! Sacripante! Non farlo!” (2-2 di Drenthe); “[inintelligibile]” (2-3 di Pato). Io non volevo vedere i giocatori, io volevo vedere le maglie: quando ho notato il Real candidissimo e il Milan in calzoncini neri ho capito che non si giocava per il jingle della Coppa mastodontica, si giocava per finire l’opera che Van Basten aveva iniziato nel secondo tempo di vent’anni fa.
lunedì 26 ottobre 2009
Dieci considerazioni inattuali sul PD
1. Come ogni anno, il PD ha vinto le primarie.
2. La dichiarazione ecumenica di Pierluigi Bersani, "Ho vinto io ma è una vittoria di tutti", è stata riportata solo parzialmente. La versione integrale parlava di "vittoria di tutti quelli coi baffi".
3. Franceschini. Basta, smettetela di ridere.
4. Con Bersani si apre una fase nuova per la sinistra italiana. A presiedere il partito verrà chiamato Romano Prodi. In caso di suo rifiuto, verranno rapidamente sondate le disponibilità di Nilde Jotti, Agostino Depretis e Bernardo Tanucci.
5. (Intanto è iniziato il processo a Radovan Karadzic, un uomo che non ha mai fatto male a una escort).
6. Fonti beninformate riferiscono che sia già pronto un video che ritrae Pierluigi Bersani nell'atto di guardare con sommo diletto Don Camillo monsignore ma non troppo.
7. Ma, sinceramente, vi mettereste in casa 15 persone che votano Ignazio Marino?
8. Tre milioni di persone, secondo le consuete stime al ribasso del PD, hanno pagato due euri per partecipare alle primarie. Alle regionali di fine marzo, molti di loro andranno al mare, dimenticheranno che i seggi chiudono alle 22 oppure opteranno per Casini e Rutelli. Evidentemente è gente refrattaria a votare gratis.
9. Tre milioni di persone, secondo le consuete stime al ribasso del PD, hanno pagato due euri per ratificare una scelta di D'Alema. Rispetto ai tempi del PDS, la scelta di D'Alema ha quindi fruttato sei milioni di euri (11.617.610.000 lire) in più. Si tratta di una grande vittoria per la democrazia.
10. Be', almeno è comunista.
domenica 25 ottobre 2009
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sabato 24 ottobre 2009
M'illumino d'arrazzo
venerdì 23 ottobre 2009
Io sono il target
giovedì 22 ottobre 2009
In nome della libertà di parola, sta' zitto

mercoledì 21 ottobre 2009
Il rasoio di Beckham
"Mozart, James Joyce and sodomy"

lunedì 19 ottobre 2009
Trova la differenza
[Comune di Aci Trezza sul Naviglio, liceo “Cardinal Martini”, lunedì, ore 10:25, ora di religione.]
Il prete [facendo lezione] ...pertanto alla fine del II secolo Clemente Alessandrino, maestro di Origene Adamantio, polemizza contro Ammonio Sacca...
Gli alunni [dormendo] Z.
[Un allievo, scocciatosi, si alza causando il risveglio degli allievi più prossimi al suo banco. L’improvviso risveglio infastidisce il prete, che protesta]
Il prete [protestando] Io protesto! Dove credi di andare senza permesso?
L’allievo transeunte Professore, sono io che protesto: mio padre è un libero pensatore, non riconosce il concordato, odia Craxi più di Mussolini ergo mi fa avvalere della facoltà di essere esonerato dall’ora di religione e di trascorrerla invece seduto per terra in corridoio a guardare le figure del manuale di biologia.
Il prete [riponendo la spada nel fodero] Allora va bene, va’ pure, peggio per te.
L’allievo transeunte [indicando i compagni di classe] Peggio per loro.
Il prete [riprendendo da dove s’era fermato] ...pertanto cade in contraddizione con quanto sostenuto dalle encicliche Quemadmodum e Gravissimo Officii Munere...
Gli alunni [riprendendo da dove s’erano fermati] Z.
---
[Comune di Aci Trezza sul Naviglio, liceo “Cardinal Martini”, lunedì, ore 10:25, ora di religione islamica.]
L’imam [montando in vetta all’armadio] La ila’ah illah lah!
Gli alunni più solerti [ponendosi col culo all’aria] Ci poniamo col culo all’aria!
[Un allievo, sciocciatosi, si alza facendosi strada fra la selva di natiche prospicienti. L’improvviso movimento infastidisce l’imam, che protesta]
L’imam [protestando] Io protesto! Dove credi di andare senza permesso?
L’allievo transeunte Professore, sono esentato dall’ora di religione...
L’imam Bismillah al-ramani rahim, nessuno è esentato! Quando la giumenta al-Borak condurrà la tua anima persa in cielo, nell’al-Janna, cosa dirai ai sommi giudici? Che sei esentato? Su, anzi, giù, ed elenca le mogli del profeta.
L’allievo transeunte [inginocchiato su dei datteri] Khadija bint Kuwaylid; Sawda bint Zama; Aisha bint Abi Bakr, Hafsa bint Umar, Zaynab bint Jhuzayama bint al-Harith; Hind bint Abi Ummayya; Zaynab bint Jahsh bint Riab al-Asadiyya; Juwayriyya bint al-Harith bint Abi Dirar; Ramla bint Abi Sufyan; Rayhana bint Amr; Sayfa bint Huyay bint Akhtab; Maymuna bint al Harith bint Hazn; Mariya bint Shamun bint Ibrahim, detta “l’eritrea”.
L’imam [agitando un cammello] Sbagliato! Era detta “la copta”! Ci avrei giurato che non sapevi la risposta, tu non studi perché non rispetti la tua religione!
L’allievo transeunte inginocchiato [piangendo] Ma professore, io sono...
L’imam [fumando il narghilè e sbuffando mezzelune] Cosa essere tu?
L’allievo transeunte inginocchiato piangente [timidamente] ...cristiano, professore?
L’imam [sgozzando un bidello] Orrore, sacrilegio, fine del mondo! Sei più sfacciato di una donna che faccia vedere le labbra! Come fai a essere cristiano, se stiamo insegnando l’Islam? Fingi di non sapere che in ogni madrassa l’Alcorano può essere insegnato solo ai mussulmani? Noi stiamo facendo l’ora di Islam, quindi tu sei mussulmano. Non vi ho detto mille volte...
Un allievo prostrato [con la mano sulla vescica] Professore, non ce la faccio più, posso andare in bagno?
L’imam [violentando una pianta carnivora] Vai, che Allah ti strafulmini! [L’allievo prostrato si rialza. Allah lo strafulmina] Non vi ho detto mille volte che Islam significa sottomissione? Di’ la verità, sei tu che quest’anno non sei venuto in gita a La Mecca!
L’allievo transeunte inginocchiato timido piangente Professore, io volevo andare in gita a Barcellona.
L’imam [organizzando un attentato a Barcellona] A Barcellona! La culla dell’integralismo cattolico! Quant’è vero che in quest’armadio è nascosto il Mahdi, non hai alcun ritegno. Allora, visto che vuoi fare il cristiano, sii coerente coi tuoi principii: fatti crocifiggere.
L’allievo transeunte Ma secondo me [muore in croce]
Gli alunni più solerti [restando col culo per aria] Siamo rimasti col culo per aria!
L’imam Voi sì che mi date soddisfazione, si vede che avete spirito di iniziativa. Adesso vi spiego come mai l’Islam è la strada più breve per il Paradiso. Siete pronti? [lasciandosi esplodere] Bum!
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Questo dialogo paideutico è da intendersi a scopo satirico-dimostrativo. Nessun mussulmano è stato maltrattato durante la stesura.
venerdì 16 ottobre 2009
Incroci pericolosi
giovedì 15 ottobre 2009
Senza famiglia

mercoledì 14 ottobre 2009
Cosa non ho detto
Onore dunque alla giornalista Francesca Altomonte, già nota per aver rivelato in fascia protetta che Babbo Natale non esiste, la quale da dieci minuti d'intervista a Carpi (un quarto d'ora? venti minuti?) è riuscita a mettere insieme ben due mie frasi coerenti con il tema del servizio; e onore ai valenti patrioti che, essendo giovani veramente, hanno fatto miglior figura rispetto all'impostazione teorica della trasmissione, ossia che per quanto i giovani d'oggi non abbiano valori alcuni di loro sono abbastanza profondi da andare al Festival Filosofia.
Dunque dal servizio del Tg2 Dossier Storie è emerso che mentre il patriota Francesco si sveglia al mattino pensando che il cuore è forte e lo spirito è pronto io al massimo penso che la carne è debole e decido cosa scongelare per cena; che mentre la patriota Paola si sente un po' un'aliena io mi trattenevo dal rivelare alla Altomonte, in quanto giornalista seria, che alle tre della notte prima mi aggiravo semiubriaco per la via Emilia con gli amici (mamma, salta la riga precedente); che mentre la vita della patriota Tessa detta Teresa non è composta da persone dall'esistenza così urlata e superficiale io facevo l'elogio del Grande Fratello dicendo che era l'espressione meramente estetica dello spirito del tempo e rivendicando come Ugo Tognazzi il diritto alla cazzata perché si ha vent'anni una volta sola e mai più.
Ma ho capito che nulla di quello che stavo dicendo sarebbe stato trasmesso nel momento in cui la brava Altomonte mi ha chiesto se suggerirei a dei ragazzi più giovani di iscriversi a filosofia e ho detto quel che penso. Voi non l'avete vista perché la telecamera era puntata su di me (e in realtà non avete visto nemmeno me) ma l'ottima Altomonte ha cambiato faccia: pareva che le avessi detto io che Babbo Natale non esiste più.
lunedì 12 ottobre 2009
Colpi di scena
Su Marc Augé pesa la condanna di essere citato esclusivamente quale profeta dei non-luoghi, precipuamente aeroporti e centri commerciali. In Nomi, cose, città: viaggio nell’Italia che compra (Fandango) Arnaldo Greco esordisce con la descrizione di Vulcano Buono, centro commerciale a forma di Vesuvio recentemente inaugurato a Nola; Marc Augé compare puntuale alla penultima riga della seconda pagina. Non compare invece un centinaio di pagine dopo, quando si parla della proliferazione di festival culturali, eppure lì me lo sarei aspettato in quanto la principale novità dell’ultima edizione del Festival Filosofia di Modena è stata l’ingresso di Augé nel comitato scientifico al fianco di Remo Bodei e Tullio Gregory. Lì, invece di Augé, Greco cita Michele Serra che già anni fa paventava l’invenzione di vari Festival del Metabolismo, Festival della Meccanica Pesante e Festival della Minchia. Volendo, avrebbe avuto gioco facile nel chiamare in causa Augé per dileggiare l’Italia dei non-festival.

Ne chiedo ragione a Greco stesso, che mi spiega di essere andato al Festival di Modena solo nel 2007, edizione alla quale Augé prese parte ma senza ruoli istituzionali. Più freschi sono i suoi ricordi del Festivaletteratura di Mantova 2008 dal quale ha ricavato la sensazione che “un incontro con Jonathan Safran Foer si riferisce immediatamente a un genere di coinvolgimento molto più superficiale” della lettura dei suoi romanzi. Presumo sia così ma non posso confermarlo: avendo deciso di andare al Festivaletteratura solo e soltanto se invitato a parlare, plausibilmente non ci andrò mai né potrò scoprire se Greco abbia ragione. In compenso detengo un’affidabile infiltrata al Festival di Mantova alla quale giro la domanda per capire se in un’iniziativa così mastodontica il coinvolgimento debba sempre essere inversamente proporzionale alle dimensioni.
La risposta della signorina Giulia mi sorprende. Sostiene che il vero numero chiave non sia quello espresso in decine di migliaia per ratificare l’ammontare del pubblico bensì una cifra più modesta: 600. Si tratta del numero di ragazzi blu, ossia di giovani che collaborano all’organizzazione del Festivaletteratura rendendosi riconoscibili grazie alla maglietta blu. Il Festival è a settembre, loro vengono scelti ad agosto e devono candidarsi in luglio. Dunque già due mesi prima, contate le domande, si riesce a intuire il successo del Festivaletteratura non per estensione ma per peso specifico.
I ragazzi blu vanno a Mantova né per parlare né per ascoltare: sono l’intercapedine fra gli scrittori e il pubblico. Devono accompagnare gli autori stranieri industriandosi con un inglese fluente; spiegare alla folla inferocita che una sala da 300 persone non può contenerne 3000; tenere d’occhio le aree dedicate ai bambini nelle quali è sempre incombente la rissa fra genitori; faticare indifferentemente sotto il caldo cane o la pioggia battente; in più devono astenersi dal perdere la pazienza a costo di diventare dello stesso colore della maglietta. Che le domande crescano ogni anno è stupefacente quasi quanto la recidività di alcuni di loro (la signorina Giulia è blu dal 2003 ma non è ancora esplosa): direi che il loro coinvolgimento è molto più profondo rispetto a quello di chi compra un libro di Safran Foer e se lo fa autografare con dedica.
I volontari sono il criterio infallibile per distinguere un festival ben fatto da un non-festival o, direbbe Serra, da un Festival della Minchia. Mai come in questo caso le dimensioni non contano: ospitare grandi nomi è relativamente facile; riempire le sale o le piazze non è impossibile. Trovare giovanotti pronti a tre o cinque giorni di mal di gambe è più difficile perché ci vogliono motivazioni vere; al contempo è necessario perché senza adeguata manovalanza nessun festival si fa così come nessuna squadra di calcio vincerebbe mai senza l’apporto di oscuri centrocampisti. Tg2 Dossier Storie l’ha intuito e ha dedicato alcune interviste (in onda nella notte di sabato 10) ai giovani del Festival Filosofia di Modena. La particolarità di Modena è che ai consueti collaboratori – maglietta gialla – se ne affiancano altri vestiti da persone normali ai quali sono affidati compiti di maggiore responsabilità come i contatti con la stampa o la presentazione di conferenze. Si tratta di una dozzina di ricercatori sparsi per l’Italia e un po’ di estero che hanno in comune una sola cosa: il dottorato a Modena con Michelina Borsari, storica direttrice scientifica del Festival. Ogni settembre tornano lì, collaborano all’organizzazione e forse costituiscono una piccola comunità filosofica in prospettiva – solo il tempo saprà dirlo.
E ora, colpo di scena: per abbassare la credibilità della trasmissione, Tg2 Dossier Storie ha intervistato anche me che dal 2005 passo tre giorni di settembre a contenere gli slanci delle fan più agé di Umberto Galimberti, a far del mio corpo scudo a James Hillman mentre mille mani si stendono per toccarlo a mo’ di re taumaturgo e poi a infilarmi una cravatta al volo per presentare urbi et orbi filosofi di cui ignoro l’identità fino a mezz’ora prima. Perché lo faccio? Perché ai tempi del mio dottorato Augé tenne un corso a Modena e sarò rimasto suggestionato da questa storia dei non-luoghi.
venerdì 9 ottobre 2009
Un giorno nero per l'umanità
giovedì 8 ottobre 2009
L'inevitabile ripetitività della copula letteraria
E allora tutti a letto, anche senza Carosello, secondo la nuova tendenza della narrativa italiana. L’altro giorno stavo leggendo La separazione del maschio, ultimo romanzo di Francesco Piccolo, e – nonostante il pregevole nudo in copertina, nonostante l’assicurazione nel risvolto di seconda che il sesso sarebbe risultato “un’ossessione e una consuetudine”, nonostante la definizione in quarta di “romanzo scandaloso e disarmante come una confessione” – miravo soltanto a immergermi nella lucida e sferzante ironia di questo gigantesco Jerome casertano. Così, quando capitavano scene di sesso inevitabili nel resoconto di un uomo che riconquista piena libertà d’alcova dopo essere stato mollato dalla moglie, non ci facevo molto caso e procedevo alla ricerca dell’ironia che affiorava sin dalle prima pagina con la critica dei baristi di oggi che spargono subito il cacao sul cappuccino senza nemmeno chiedere al cliente se lo vuole o no. L’equilibrio ha retto fino a pagina 162. Poi una delle amanti del protagonista gli telefona proponendogli un incontro consolatorio con annessa amica e allora iniziano otto pagine e mezza di acrobazie ritrite e mica trascrivibili.
Ragioniamo. L’idea di due donne che citofonano all’appartamento di un maschio tornato solitario è intrigante abbastanza da lasciar intuire tutto ciò che ne può derivare, tanto più se ne deriva esattamente quello che il maschio si augura nei suoi sogni più sfrenati. In tal caso, poiché il narratore racconterebbe ciò che il lettore già sa, non c’è alcun bisogno di entrare nei dettagli. La sfumatura narrativa, lo spazio bianco che consente di saltare a pie’ pari la scena erotica d’un velo candidissimo adornandola e consentendo di passare direttamente al post coitum non è figlia né della censura né del pudore; serve solo a risparmiare caratteri e non allungare troppo il brodo romanzesco. Se io racconto che il protagonista ebbe fame e si preparò un piatto di spaghetti non ho gran bisogno di entrare in dettagli: prese la pentola, vi immise l’acqua, accese il fuoco, misurò il sale…
Senza contare che la scena erotica a tre, non lasciando spazio all’immaginazione, impedisce tautologicamente al lettore di immaginarsi al posto del protagonista. Se si fosse fermata alle nove di sera, quando l’io narrante invita amante e amica a cena da lui, per poi ricominciare alle sette meno un quarto del mattino, il lettore avrebbe avuto a disposizione circa dieci ore nelle quali figurarsi qualsiasi porcheria lo aggradasse secondo il gusto individuale. Venendo posto di fronte al fatto compiuto, invece, deve limitarsi ad allinearsi al gusto che l’autore presta al protagonista.
Il problema è che per descrivere il sesso sono necessari due requisiti uguali e contrari. Uno è il coraggio di dare a ogni organo o atto il nome giusto al momento giusto – rifugiandosi in perifrasi più o meno pudiche e più o meno romantiche si consegue lo stesso effetto para-burocratico di quando si chiamano i piedi “estremità inferiori” o le mutande “effetti personali”. L’altro è la capacità di variare e modulare la terminologia a seconda dell’esigenza così da superare il principale ostacolo tecnico della narrativa erotica: il sesso è ripetitivo, ovvero è sempre scomponibile e riducibile allo stesso nucleo più o meno noto a tutti, esattamente come dalla Champions League al cortile sotto casa ogni partita di calcio si basa sull’assunto universale che chi fa più goal vince.
Se uno legge i grandi pornografi francesi della storia – Sade e Restif de
In Italia invece le cose non filano altrettanto lisce, nonostante la proliferazione di scene esplicite in romanzi che tutto vogliono essere meno che erotici. In Non avevo capito niente di Diego De Silva, un mediocre avvocato Malinconico fin dal cognome si ringalluzzisce non grazie alla travolgente passione per la più bella dell’ufficio, che sarebbe normale, ma alla travolgente passione della più bella dell’ufficio per lui. E vanno a letto. In Prima di sparire, Mauro Covacich prende a raccontare i fatti propri compresa la dirompente passione per una ragazzetta romana. E vanno a letto. In Italia De Profundis, Giuseppe Genna viene contattato su internet da una drag queen milanese, che dopo aver simulato una insana passione per Genna medesimo gli dà convegno accogliendolo con due colleghe piuttosto aggressive. E vanno a letto tutti e quattro. Potrei citarne molte altre ma si tratta di scene di sesso noiose anche solo a rammentarle fugacemente e nessuna di loro merita di essere ricordata come invece una pagina qualsiasi del peggio di Sade o di Apollinaire.
Dovessi indicare un responsabile, però, punterei il dito contro Sandro Veronesi. Non parlo di responsabilità cronologica, ché certo non è stato il primo, ma di responsabilità stilistica: la scena di trasporto e sodomia fra il protagonista di Caos Calmo e la sconosciuta borghese cui aveva salvato la vita è il vertice (basso) della pornografia letteraria d’Italia, quella in cui si copula a vista ma solo per offrire maggior introspezione psicologica. È come quelle attrici che si spogliano volentieri ma solo per un nudo artistico. Poi la scena è stata trasposta nella versione cinematografica del libro e da allora pare che ogni autore italiano ficchi nel proprio romanzo cinque o dieci pagine di sesso esplicito – però sesso intellettuale, rivelatore, sesso sterilizzato perché non fine a sé stesso – nella speranza che ne venga tratto un film in cui si veda il culo di Nanni Moretti. Hanno lo stesso effetto dello sbuffo non richiesto di cacao sul cappuccino.
mercoledì 7 ottobre 2009
Grazie Pio
martedì 6 ottobre 2009
Anche Guareschi è Candido
Non si poteva festeggiare più degnamente il 250° anniversario della pubblicazione del Candide di Voltaire che assistendo al monumentale convegno organizzato alla Maison Française d’Oxford, nel corso del quale sono intervenuti i più insigni studiosi di tre continenti e m’è venuta un’idea così pressante da dover saltare sul primo aereo che passava e farmi paracadutare in piena Bassa padana, segnatamente a Roncole Verdi.
Il fatto è che non c’è convegno né volume né tesi per quanto fragile sul Candide che non citi a ruota, quale effetto della sua influenza in Italia, il Candido di Sciascia. Ben a ragione, d’altronde. Una recente edizione scolastica ha addirittura optato per un’antologia parallela dei due testi allo scopo di educare le giovani generazioni alle stringenti conclusioni teoriche dei due autori: che “il faut cultiver notre jardin”, secondo il modello francese, e che è meglio sentirsi figli della fortuna, e felici, secondo l’epigono siculo.
L’eredità voltairiana di Sciascia è talmente luminosa da far dimenticare che per sedici anni, dal 1945 al 1961, il più importante settimanale satirico d’Italia si chiamava Candido: esattamente come se l’avesse scritto Voltaire. Invece l’aveva ideato Giovannino Guareschi (con Mosca, Longanesi, Carletto Manzoni e Oreste Del Buono), autore non nuovo a simili amnesie da parte della cultura ufficiale. Lui stesso a dire il vero aveva escluso ogni volo pindarico spiegando già nel 1946 come il titolo del settimanale fosse “un nome insignificante che ha il solo difetto di ricordare un po’ il nostro vecchio giornale, in quanto finisce in –do come Bertoldo”. Eppure l’eredità è macroscopica. Se il Bertoldo si chiamava come il personaggio di Giulio Cesare Croce, Candido era insindacabilmente l’italianizzazione del Candide di Voltaire. Cosa talmente evidente da passare inosservata; e non per niente Del Buono ricordava che in redazione “ogni parola veniva studiata, sviscerata e poi letta con attenzione alla ricerca di tutti i possibili significati”.
Per questo sono volato a Roncole, dove Alberto e Carlotta Guareschi oltre a venire a ripescarmi sotto la pioggia torrenziale (in Inghilterra splendeva il sole) mi hanno consentito di spulciare ogni volume nella biblioteca paterna. Bibliograficamente sapevo che se solo avessi trovato una qualsiasi edizione del Candide il gioco era fatto e l’eredità voltairiana di Guareschi bella che dimostrata. Non l’ho trovata ma ho le attenuanti. La biblioteca è piccola e residuale: buona parte dell’archivio Guareschi è ancora in via di spoglio e quanto ai libri, come per tutti, essi circolavano,venivano prestati, si smarrivano nel nulla. Negli anni della formazione di Guareschi andava per la maggiore in Italia la traduzione Sonzogno di Candido: racconto satirico, pubblicata nel 1926 nella collana “I capolavori dell’umorismo”. Era l’edizione che mi aspettavo di trovare a Roncole. Infatti della stessa collana Guareschi possedeva quasi tutto Jerome e in collane similari Chesterton e Dickens. L’assenza fisica del Candide è un dettaglio: con una biblioteca del genere l’aveva letto di sicuro.
Candido era un settimanale anti-intellettuale ma non per questo fatto da stupidi. Aveva perfino sperimentato una rubrica di satira filosofica che andava da Epicuro a Spinoza ed era curata da Mosca, solerte studioso che già aveva tradotto i classici latini con coscienza e serietà. Guareschi stesso conosceva benone il Settecento, come testimoniano alcuni volumi ancora conservati a Roncole fra cui L’antico regime e la rivoluzione di Tocqueville. Filologicamente sapevo che se solo avessi scovato in Guareschi una citazione da Voltaire il gioco era più che fatto. Macché: l’ho letto e bisletto senza trovare niente, e d’altronde era uno che si vantava di non dover mai citare alcunché. Tuttavia a Roncole ho trovato
L’orecchia potrebbe benissimo non averla fatta Guareschi ma è innegabile che Candido fosse il settimanale che fustigava le iniquità del dopoguerra. Se rileggeste Voltaire notereste che tutti i guai di Candide iniziano col suo coinvolgimento nella Guerra dei Sette Anni presso i bulgari: anche il romanzo è dunque la storia di un dopoguerra. Quando arrivano a Lisbona, Candide e Pangloss sono condannati a un autodafé e rivestiti di un sambenito: sono privati della loro dignità individuale esattamente come Guareschi che, in un lager fino a pochi mesi prima, si ritraeva trasformato in un numero di matricola e una divisa a righe sempre più larga. Inoltre il settimanale che avrebbe accompagnato gli ultimi mesi della Monarchia poteva ben chiamarsi come il romanzo che aveva dedicato un intero capitolo al banchetto di sei re spodestati e al loro dignitoso rimpianto.
Candido era un settimanale reazionario quasi quanto Voltaire. Il reazionario non è forse colui che esprime sdegno per il proprio tempo ed esclama con ironia sprezzante che “tutto è bene, tutto va bene, tutto va nel migliore dei modi possibili”? Così fa Candido, “il giornale più inutile d’Italia” che aveva per unico obiettivo “battersi contro la retorica non per scetticismo, ma per onestà”. La retorica osteggiata da Voltaire era l’ottuso ottimismo alla Leibniz. L’ottimismo che Guareschi rifiutava era quello che intendeva ricostruire una nazione senza Re e senza Dio. Sono due facce della stessa medaglia: Guareschi auspicava un’Italia prospera e modesta, capace di coltivare il proprio giardino. Però quando sono tornato a Oxford il convegno era già finito e non ho potuto rivelare a nessuno questo decisivo intervento di Voltaire nell’antica vittoria della Democrazia Cristiana - né mi avrebbero creduto.
lunedì 5 ottobre 2009
Sì, narrare
venerdì 2 ottobre 2009
Non avrò altro Dio all'infuori di me
Luglio, galleria Tate Britain di Londra: un ragazzino opta per la bravata e ruba una scatola di matite HB. Una volta scoperto, invece di subire rampogna e scappellotto con annesso sequestro delle matite incriminate, viene arrestato, quindi rilasciato dietro cauzione e al momento è in attesa di sapere se deve pagare un risarcimento danni di cinquecentomila sterline, cifra della quale presumibilmente non dispone. Direbbe a questo punto un saggio: ma non era meglio condannarlo a ricomprare la scatola di matite e chi s’è visto s’è visto? Un cinico magari avrebbe potuto costringerlo a rimpiazzare dette matite con un set extralusso, scatola plastificata e gomma in cima, dal valore non inferiore alle cinque sterline – cifra che di questi tempi è comunque una bella ferita al portafoglio di un adolescente. In entrambi i casi la faccenda sarebbe stata risolta in mezz’oretta e non si trascinerebbe inane e un po’ ridicola da mesi.
Il dettaglio che sfugge tanto al saggio quanto al cinico è la provenienza delle matite: non già gli uffici della Tate Britain, dove magari perdono matite a profusione e non se ne curano più di tanto, ma l’installazione Pharmacy di Damien Hirst, l’artista vivente più venerato e valutato al mondo. Fate conto che l’installazione riempie un’intera stanza della galleria con oggetti di uso comune, almeno a quel che si può scorgere dalla visita virtuale sul sito della Tate: ché solo ad apprendere che Pharmacy è stata valutata all’incirca dieci milioni di sterline viene lo sconforto e passa tutta la voglia di guardarla dal vivo.
Se pure di dieci milioni di sterline fosse l’effettivo valore dell’installazione, è comunque piuttosto irragionevole che il set di matite ne costi cinquecentomila a meno che non occupi un ventesimo ovvero il 5% della stanza. Damien Hirst è indubbiamente ricco, d’altronde, quindi non ha bisogno di rimediare soldi. Inoltre ha un talento artistico talmente elevato che gli sarebbe bastato andare in cartoleria, acquistare un qualsiasi set di matite da cinque sterline al massimo e ricollocarlo lì dov’erano le matite trafugate: improvvisamente il nuovo set avrebbe acquisito un valore da centomila volte tanto. Perché dunque tanto accanimento nei confronti della bravata di un diciassettenne?
Perché il ragazzino non aveva rubato le matite in sé, voleva rubarne il valore artistico: Hirst sostiene che lo dimostrino i precedenti. Nel dicembre 2008 il ragazzino aveva ancora sedici anni e aveva compiuto un furto ben più sensazionale senza dover nemmeno spostare una matita. L’anno prima Hirst aveva prodotto Per l’amor di Dio, un teschio risalente al XVIII secolo tempestato da ottomilaseicentouno diamanti. Un’opera d’arte talmente bella da far ingrugnire
Hirst evidentemente aveva gradito ben poco che in presenza del suo teschio si osasse non parlare di Dio, morte e senso della vita e aveva accusato Cartrain di plagio o meglio di sfruttare il successo del teschio, valutato cinquanta milioni di sterline, per ricavarne l’indebito guadagno di sessantacinque sterline a collage. Il legale di Hirst, Paul Tackaberry, ha tenuto un convincente discorso riguardo alla percentuale di prodotto artistico “citato” nell’opera di Cartrain, stabilendo che il teschio occupa all’incirca l’80% del collage e quindi si tratta di leso diritto d’autore oltre che di ovvia lesa maestà. Al riguardo non è stato però interpellato un terzo artista, John LeKay, la cui principale attività da due anni a questa parte consiste nel ripetere che Hirst ha cop..., no, s’è fortemente ispirato a un teschio che LeKay stesso aveva a sua volta prodotto nel
Cartrain sarà un ladruncolo di matite ma è anche un ragazzetto brillante: s’è subito affrettato a riconoscere che Hirst è un artista di rottura, un grande dissacratore. Le sue opere lo confermano: L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivente consiste in uno squalo conservato in formaldeide; Fuori dal gregge consiste in una pecora conservata in formaldeide; Un po’ di consolazione tratta dall’accettazione delle menzogne inerenti qualsiasi cosa consiste in varie vacche conservate in formaldeide; Madre e figlio divisi in mezza mucca e mezzo vitello conservati in formaldeide; Dio in una cassetta di pronto soccorso non conservata in formaldeide. A questo punto Cartrain chiede: se Hirst può – letteralmente – fare a pezzi l’esistente già prodotto con altri fini e riproporlo originalmente nelle proprie opere artistiche, perché lo stesso destino non può toccare alle sue opere? E, soprattutto, se Hirst può dissacrare la qualsiasi perché nessuno può dissacrare Hirst?
Il problema è che Hirst soffre di una sindrome molto diffusa nell’arte e nella cultura di ogni tempo, per non dire nel cuore di ogni uomo. Potremmo chiamarla un po’ impropriamente sindrome di Michelangelo: la leggenda vuole che dopo aver composto il Mosè l’artista fosse talmente soddisfatto del risultato da lanciargli contro un martello, urlando “Perché non parli?” e rivendicando implicitamente (anzi inconsapevolmente) il diritto a scalfire un’opera troppo perfetta. Eppure quando nel 1972 Laszlo Toth prese a martellate
Allora possiamo chiamarla sindrome di Marinetti, stante il triste destino di un uomo che s’impegnò a ribaltare i luoghi comuni su tutte le arti di questa terra, dalla grammatica alla drammaturgia e dalla cucina alla seduzione, insistendo a ogni pie’ sospinto sulla necessità di fare anch’egli la stessa fine che lui aveva riservato a chi l’aveva preceduto, ossia venire sbeffeggiato, distrutto, dimenticato e gettato nel cestino. Ma oggi chissà se non avrebbe accolto compiaciuto e tronfio la sua consegna all’empireo dell’establishment culturale; chissà se avrebbe effettivamente accettato che tutte le celebrazioni in onore del suo Manifesto si trasformassero in un’unica, assordante pernacchia; e chissà se avrebbe davvero gioito all’apprendere che passati cent’anni dal fatidico 1909 qualcuno potesse prendere in considerazione l’ipotesi di chiedersi: “Centenario? Quale centenario?”.
Oppure chiamiamola sindrome di Voltaire. L’uomo che aveva passato la vita a destabilizzare la tradizione, a smontare
Insomma, alla fine diventiamo tutti ciò che combattiamo. È la trama di Eva contro Eva. È anche quella de Il dittatore del libero stato di Bananas, vecchio film di Woody Allen in cui il capo dei rivoltosi che rovesciano il caudillo immaginario finisce per risultare più dispotico dell’originale: impone lo svedese quale lingua ufficiale e l’obbligo del cambio di mutanda ogni sei ore, per controllare più agevolmente il quale dispone che dette mutande siano indossate sopra i calzoni. Lo stesso accade a qualsiasi figlio che trascorra adolescenza e giovinezza a stabilire che da grande mai e poi mai lui farà la fine di suo padre, salvo poi passare distrattamente anni e anni dopo di fronte allo specchio del bagno e restare come folgorato perché ha scorto un’espressione, un gesto improvviso che mille volte aveva visto fare al padre e che ora, senza nemmeno accorgere, ha ripetuto lui. Sarà una conclusione triste ma è quasi sempre così: l’ultima volta ci ho pensato quest’estate, guardando il Tour de France e vedendo Lance Armstrong protestare e inveire contro Alberto Contador, reo di essere più giovane e pedalare forte. Armstrong aveva dimenticato che dieci anni fa era lui quello più giovane, era lui che pedalava forte.
Non so se è un caso, ma Armstrong ha corso una tappa del Tour con una bicicletta artistica griffata Damien Hirst: sul telaio erano incastonate decine di farfalle morte, non so se in formaldeide. Intanto Cartrain ha emesso un avviso in stile-wanted, in cui rivendica il rapimento della scatola e spiega che, se entro una certa data Hirst non ritirerà le proprie accuse, le matite verranno temperate. Il saggio continua a pensare che la miglior condanna sia di fargli ricomprare le matite. Il sadico ritiene che sarebbe ancora più deterrente fargli visitare tutte le esposizioni di Hirst.