venerdì 28 ottobre 2011

Non sopporto coloro i quali non fanno nemmeno finire di morire una persona che già sono lì pronti in tv, sui giornali, addirittura su facebook e twitter a seppellirla col congedo di prammatica: "Ciao, Nome di Battesimo". Uno dei principali motivi per i quali preferisco venire chiamato esclusivamente per cognome è che, una volta morto, potrò rapidamente scoprire tutti quelli che in vita mi hanno voluto un bene superficiale e disattento: saranno quelli che mi liquideranno con un "Ciao, Antonio".

Col povero Simoncelli è andata peggio e forse era inevitabile. I "Ciao, Sic" si sono sprecati. Questo è niente tuttavia se paragonato all'ingresso ed egresso delle sue motociclette dalla chiesa dove si sono tenuti i funerali. Sia chiaro che qui non intendo fare una colpa al padre, che ha insistito per farle entrare; presumo che perdere un figlio sia il dolore più insopportabile e non si può pretendere lucidità, bisogna solo offrire comprensione. Me la prendo col parroco che non l'ha impedito (e col vescovo che non ha strigliato il parroco). Non mi riferisco solo a una questione di opportunità teorica spiccia, ossia se sia il caso che una motocicletta entri in chiesa: in realtà la questione specifica non sta in piedi perché com'è noto è possibile far benedire qualsiasi oggetto. Mi preoccupano invece il contesto teologico, le implicazioni spirituali e le conseguenze pratiche. Com'è noto erano gli antichi egizi a seppellire i cari estinti insieme alle loro motociclette, ossia insieme agli strumenti di lavoro o agli oggetti che i defunti più avevano amato in vita; è un'usanza toccante ma al parroco (e al vescovo) dovrebbe essere abbastanza chiaro che uno dei principali pregi del Cattolicesimo è di avere garantito un progressivo smarcamento dal culto degli antichi egizi. Vorrei inoltre chiedere al parroco e al vescovo conforto riguardo a due temi che mi stanno ancora più a cuore. Uno: hanno pensato che far accompagnare la bara di qualcuno dall'oggetto che costui ha più amato in vita può dare l'impressione che venga sminuito il senso stesso della morte cristiana, che dovrebbe essere un sereno mollare gli ormeggi per passare a un aldilà più luminoso di qualsiasi carenatura? Due: hanno pensato al neopaganesimo nazionalpopolare al quale davano la stura col proprio avallo? Gli Italiani, si sa, sono così: dopo avere scritto "Ciao, Sic" e "Ciao, Karol" vorranno diventare essi stessi Sic o Karol o chi per loro; e dopo avere istituzionalizzato prima e democratizzato poi l'applauso funebre che originariamente risuonò per Anna Magnani e ora è riservato alle vittime degli sgozzamenti da strada nonché al nonnino spentosi in grazia di Dio, ora vorranno altresì essere accompagnati nell'ultimo viaggio dagli oggetti che più hanno amato in vita. Allora avremo finalmente compiuto il tragitto completo, dalle mummie alla risurrezione della carne e ritorno.

Già che siamo in argomento ne approfitto per dare le mie ultime disposizioni (mamma, non allarmarti, sto una bellezza ma non si sa mai). Non azzardatevi a portare in chiesa la mia bara seguita uno a uno dai circa duecento volumi blu dell'edizione critica delle opere complete di Voltaire alla quale collaboro, né dalle ultime annate del Foglio, che pure è la prima cosa che leggo ogni mattino, e nemmeno da chicchi di caffè o cabosse di cacao. Sconsiglio vivamente anche la presenza di avvenenti signorine in bikini, ferma restando la mia forte predilezione al riguardo, e dietro l'altare non piazzate un megaschermo sul quale scorrano le immagini delle vittorie del Milan in Coppa dei Campioni. Fate una messa semplice, se proprio volete suonate il Dies Irae di Mozart, dopo di che provvedete a seppellirmi sotto la seguente dicitura senza fronzoli retorici (niente "lavoratore indefesso", "amico sincero", "fidanzato discutibile", "figlio snaturato", "intellettuale arzigogolato", etc.):

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Antonio Gurrado
ghisleriano
1980-2099

E invece lo so già, scriverete "Ciao, Antonio" e io non potrò nemmeno rivoltarmi nella tomba perché l'avrete riempita di tutti i Guerin Sportivo che conservo da più di vent'anni.
Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo sport e dall'azione cattolica. Ora, se devo giudicare dalle persone che abitualmente gestiscono quest'ultima, probabilmente è un bene (l'ha detto fra le righe anche il Papa ieri ad Assisi e per accorgersene non ci voleva molto, bastava essere cattolici); per quel che concerne lo sport la situazione è più controversa. Per riuscire a spiegarlo bene mi ci vorrebbe tutto il talento dei contemporanei romanzieri patri, che in Italiano neo-standard riempiono i loro volumi di frasette brevi come se avessero il singhiozzo e usano a ogni pie' sospinto l'aggettivo dimostrativo "quello, quella, quel".


Tranquillizzatevi, perfino con premesse del genere riesco agevolmente ad arrivare al punto e trattare, come ogni settimana su Quasi Rete de La Gazzetta dello Sport, l'anticipo di turno: oggi è Inter-Juventus 2-2 del 9 marzo 2002, benedetto da una doppietta epocale di Clarence Seedorf. Dov'ero quella sera?

martedì 25 ottobre 2011

Popoli padani, oggi verrà presentato a Milano il romanzo Quarto tempo di Claudio Gavioli, già medico sociale del Modena Football Club. Ne parleranno Gino Cervi e Andrea Maietti ma sarà l'occasione per scoprire dal vivo quanto siano belli anche gli altri autori del presidio di fabulazione sportiva em bycicleta sul blog letterario della Gazzetta dello Sport, Quasi Rete. Fra questi perfino l'autore dei posticipi Francesco Savio, perfino io autore degli anticipi. Ci vediamo dunque alle 18 alla trattoria della Madonnina, in via Gentilino 6: non piove, è solo un'illusione ottica.

lunedì 24 ottobre 2011

Ieri ho visto al Fraschini Il nipote di Rameau (riduzione teatrale di Silvio Orlando, per la regia di Silvio Orlando, con Silvio Orlando): ottimo spettacolo breve ma intenso, che fa venir voglia di rileggere il testo di Diderot - sia chiaro che uso "rileggere" nella comune accezione italiana del termine, ossia correre a recuperare una qualsiasi copia di un classico e, nascondendosi dietro il rossore della propria vergogna, aprirla per la prima volta in vita propria. Come sempre a teatro, tuttavia, nonostante l'ottima sceneggiatura i migliori dialoghi si sono svolti in platea, grazie soprattutto alla verve di una signora in poltronissima, ossia nella prima fila a ridosso del proscenio sive ribalta, che ha parlato contemporaneamente al personaggio di Diderot nei primi cinque minuti di spettacolo finché, scorgendo l'ombra di Silvio Orlando che fingeva di essere abbioccata sullo sfondo, ha esclamato: "Guarda! C'è Silvio Orlando!", così fugando ogni pericolo di crisi d'identità del noto attore. Di là da questo monologhetto, eterno i tre scambi più significativi.

Dialogo primo
Egli (vegliardo azzimato che pare appena fuggito dalla prima comunione della nipotina): "E' così breve che non c'è nemmeno l'intervallo per fare i commenti".
Ella (vegliarda cotonata e tenuta su da non so quale impalcatura): "Be', li faremo alla fine".

Dialogo secondo
Signora di mezz'età (sporgendosi verso la fila davanti): "Che piacere rivederla! Ha passato una bella estate?"
Signora di un'età e mezza (voltandosi, ma con artritica cautela, verso la fila dietro): "E' passata".

Dialogo terzo
Sciura pavese (installandosi sul posto che per diritto di prelazione sull'abbonamento per prosa, lirica e danza occupa dal tardo Settecento e scorgendo di fianco a sé una giovine sconosciuta): "Lei è la figlia?"
Giovine sconosciuta (chiaramente non indigena, espressamente spaesata, leggermente sovrappeso, non accompagnata, veste con malagrazia gonna lunga e tacchi alti cercando qualcuno che la riaccompagni mentre ostentatamente la ignoro): "No".

domenica 23 ottobre 2011

In tribuna si distingue Gianfranco Fini, tutto gongolante di fianco a sua moglie (Daniela Di Sotto; oggi ex) e con in petto un partito ai massimi storici (Alleanza Nazionale al 15,7% alle politiche del 21 aprile; oggi Futuro e Libertà è ottimisticamente valutato intorno al 3,9%, appena sotto lo sbarramento minimo per venire rappresentato alla Camera). Rileggendo la storia col senno di poi, non sorprende che nella circostanza - lui bolognese sposato con una laziale - avesse dichiarato di tifare per entrambe le squadre.


Fini a parte, l'anticipo di oggi su Quasi Rete è il più anticipo di tutti, il peccato originale che ha portato alla smania anticipatoria di oggidì: Bologna-Lazio 1-0 dell'ottobre 1996.

sabato 22 ottobre 2011

Mentre mi dibatto dilaniato su quale sia il titolo migliore del giorno - se quello epocale del Giornale sulla depressione dei gatti o quello più esistenzialista de La Stampa che recita "La bellezza è una maschera di guano" - mi casca l'occhio sulle pagine e pagine che Repubblica ha dedicato al primo (e si presume ultimo) congresso del partito di Domenico Scilipoti, il Movimento di Responsabilità Nazionale. Come sempre, il demonio è nei dettagli: racchiuso all'interno dello stemma del partito sta il simbolo, che riproduce in verde e rosso i semicerchi di yin e yang che sicuramente avrete visto tatuati sulla zona pelvica di qualche massaggiatrice cinese. Ora, se uno niente niente aveva una mezza intenzione di votare Scilipoti (sempre ammesso che il partito si presenti davvero alle elezioni che allo stato attuale delle cose potrebbero tenersi tanto fra un anno e mezzo quanto posdomani) la visione dell'infingardo stemma sinofilo dovrebbe essere sufficiente a farlo recedere: ma come, Scilipoti prima dice ben a ragione che chi vuol levare il Crocifisso dai muri delle scuole è uno scimunito e poi sceglie di identificarsi in un disegnino buono tutt'al più per una beauty farm di patrioti new age? Non bastasse questo sconforto, l'autorevole didascalista di Repubblica ha pensato bene di argomentare che lo stemma raffigura "un tao tricolore". Avete capito bene, un tao tricolore: e dire che tutte le massaggiatrici cinesi che mi si sono mai parate dinanzi mi hanno sempre insegnato, così alla spicciolata, che lo yin-yang è il simbolo della fusione di due forze contrapposte mentre il tao è una filosofia in senso lato. Ora, Repubblica non è nuova a questi inciampi e anche per questo è un giornale ameno: ricordo ancora con piacere pressoché fisico il giorno in cui, a elezione di Ratzinger ancora calda, inserì a tutta pagina lo stemma delle due chiavi legate da una corda spacciandolo quale nuovo stemma pontificio. Lo aveva probabilmente trovato pari pari sul sito del Vaticano, dove a qualche ora dall'elezione campeggiava ancora (con didascalia) questo stemma della "apostolica saedes vacans", sede apostolica vacante. Confondere tuttavia lo yin e yang col tao è un po' più significativo dei suoi metodi in quanto è come se, volendo descrivere con compiaciute sufficienza e albagia il logo della Democrazia Cristiana, Repubblica lo definisse "scudo con la scritta Libertas che campeggia su un catechismo". Ecco cosa accade  a sentirsi sempre superiori agli altri, più educati più dritti e più belli: mi sa che alla fine ha ragione quel titolo, la bellezza è una maschera di guano.

venerdì 21 ottobre 2011

Splendori e miserie di Silvio Berlusconi il quale ieri, nel breve volgere di poche ore, è riuscito a dire le parole più intelligenti e quelle meno furbe della giornata.

L'espressione più intelligente è stata quella con la quale ha seppellito Gheddafi, "sic transit gloria mundi", concentrando in quattro sole parole il dolore per la perdita di un amico controverso, l'inevitabilità della politica che deve comunque andare avanti, il mugugno per l'annullamento delle conseguenze pratiche di accordi internazionali stipulati con fatica e forse anche un'ombra di mesta autoreferenzialità. Come spesso gli accade, non è stato compreso. Ad esempio Massimo Donadi dell'Italia dei Valori, con la consueta aria da Venerdì Santo in servizio permanente effettivo, ha replicato con un altro detto latino a caso per poi chiedere coram populo cosa c'entri mai la gloria con Gheddafi che era un sanguinario dittatore. Io non lo frequento abitualmente, ma se vi capita dite a Donadi che nell'espressione latina si fa riferimento alla "gloria del mondo", che con versione un po' libera potrebbe essere resa con: "gli abiti scintillanti, gli occhiali da sole, le tende in Campidoglio, le hostess, il titolo di Re dei Re d'Africa e il figlio che gioca nell'Udinese".

L'espressione meno furba è invece quella con la quale, durante un vertice coi parlamentari del suo partito, Berlusconi ha commentato un intervento televisivo dell'onorevole Laura Ravetto arguendo che costei avrebbe prestato troppa attenzione mentre parlavano gli esponenti dell'opposizione e non avrebbe scosso sufficientemente il capo in senso di diniego. Io non lo frequento abitualmente, ma se vi capita regalate a Berlusconi una copia dell'opera omnia di Achille Campanile nella quale troverà (credo tratto da Gli Asparagi e l'Immortalità dell'Anima) un utile consiglio da seguire quando si visita la mostra personale di un amico che si diletti mediocremente di pittura: mai iniziare elogiando oltremodo il primo quadro perché l'amico si aspetta un crescendo e dunque al decimo, al ventesimo, al cinquantesimo quadro non si avranno più parole per esprimere il proprio entusiasmo. Meglio iniziare con un apprezzamento contenuto, quasi indifferente, e la progressione nel giudizio fra il primo e l'ultimo quadro procurerà all'amico una soddisfazione maggiore della vana e frustrante ricerca di iperboli arrampicate sugli specchi. Questo vale, mutatis mutandis, per i dibattiti politici. Se l'onorevole Ravetto avesse dovuto scuotere il capo a qualsiasi frase pronunziata dagli esponenti dell'opposizione, avrebbe dovuto scuoterlo più forte quando fossero arrivate le prime immancabili boutade incondivisibili, ondeggiare con tutto il busto da sinistra a destra e viceversa nel momento in cui fossero state chieste le dimissioni del premier, roteare la testa di 360° sentendo profferire che la crisi globale è colpa di Valter Lavitola, staccarsela e brandirla come Bertrand de Born nel momento in cui si fosse argomentato che il video hard di Belen è stato girato a Palazzo Grazioli e infine lanciarla contro l'oppositore mentre questi spiegava che la manifestazione del 15 ottobre a Roma era di natura pienamente pacifica.

giovedì 20 ottobre 2011

Ora che Gheddafi è morto (così dicono) e abbiamo smesso di poter distrarci col giocherello della caccia all'uomo, avremo tutto l'agio di concentrarci sull'identità dei ribelli libici e chissà, magari anche di rimpiangere Gheddafi che, sia detto fuori dai denti, aveva tre principali difetti: era mussulmano; era un dittatore; era Gheddafi. Ciò nondimeno avere a che fare con lui, come dimostrano le varie foto cinicamente messe online che lo ritraggono con Berlusconi e Prodi sorridenti (mentre Gheddafi non sorrideva affatto, si vede che si vergognava a farsi vedere in compagnia simile), è stato molto meglio che avere a che fare in futuro con i suoi sostituti: non lo dico io ma autorevoli commentatori sospettano che il ruolo di Gheddafi fosse simile a quello che l'Impero Romano lasciava ai dittatorelli africani degli stati confinanti, ossia parafulmine e calmiere. Vedrete ora quanto pagheremo in termini di immigrati, di perdita di vantaggi economici, di vicinanza con uno stato sempre più islamizzato.

Al riguardo, appena ho appreso della (presunta) morte di Gheddafi una repentina associazione di idee mi ha portato dritto a una scena magistrale de Scipione detto anche l'Africano, opera del mai troppo lodato Luigi Magni. Massinissa, re di Numidia, si appoggia a una colonna e ricorda sognante: "La verità è che diventai alleato de Roma solo divorato dall'odio che ci avevo contro Siface, re de Mauritania, che alleato de Cartaggine s'era sposato Sofonisba. Scipione e io sbaragliamo Siface. La notte stessa della battaglia acchiappai Sofonisba che scappava e me la sposai sur campo seminato de cadaveri. Ma datosi che anche lei era bottino de guera, Scipione disse: 'Se manni schiava Sofonisba a Roma'. E nun ce fu verso: così je'mponeva la legge de Roma e Scipione nun poteva chiude 'n'occhio solo per me. Io capii tutto er dramma de Scipione, per cui ammazzai Sofonisba. Pure Scipione capì er dramma mio, e come: tant'è vero che per consolamme me regalò el regno de Mauritania. Hai capito er dramma nostro?". Al che ribatte Scipione l'Asiatico, fratello del più noto omonimo: "Eh, io ho capito sì. Ma qui er dramma de Sofonisba non l'ha capito nessuno". Ecco, qui mi pare che er dramma de Sofonisba lo capiremo presto sulla pelle nostra.

mercoledì 19 ottobre 2011

Ma come per Aristide Gambia "fottere" è soprattutto "smemorarsi", chi legge romanzi erotici lo fa anche per non pensare alla politichetta; bisogna dunque ignorare il nome di Berlusconi che Starnone infila nelle pagine estreme del testo, quasi si fosse improvvisamente ricordato di essersene dimenticato, e concentrarsi invece sul riferimento chiave dell'impalcatura romanzesca: il guardacaccia Mellors, l'amante di lady Chatterley.

Sul Foglio di oggi non recensisco il nuovo romanzo di Domenico Starnone, l'Autobiografia erotica di Aristide Gambia, perché è un bel romanzaccione che sta in piedi da sé e quindi non ha bisogno di recensori compiacenti; cerco invece di rintracciare su per i secoli di letteratura la genealogia erotica di autore e protagonista.

martedì 18 ottobre 2011

"I cattolici abbandonano Berlusconi", o forse "I cattolici dimenticano Berlusconi", se non addirittura "I cattolici sconfessano Berlusconi". Bon, in questi giorni io sono oltremodo impegnato a leggere con colpevole ritardo Guido Gozzano quindi non ho tempo sufficiente a ricordare a memoria i titoli dei giornali, ma desidero cogliere l'occasione per rallegrarmi dell'improvvisa attenzione che il noto quotidiano intitolato come un dialogo di Platone ha deciso di riservare al mondo cattolico: attenzione testimoniata dal titolo cubitale che ho appena citato approssimativamente, attenzione che si riverbera anche nella notizia dell'uccisione nelle Filippine del missionario don Fausto Tentorio, al quale era dedicato in prima pagina uno spazio orientativamente pari a un francobollo, se non pari al puntino sulla "i" dei "cattolici" che "scaricano Berlusconi".

Che poi questo famigerato discorso del cardinal Bagnasco io l'ho letto integralmente e tutto questo abbandono, questa dimenticanza, questa sconfessione, questo scaricamento di Berlusconi non l'ho ravvisato, almeno non più di quanto non fosse già implicito (e plausibilmente giustificato) da tempo. Io sono uno che va per il sottile quindi non intitolo questa mia paginetta virtuale con un bell' "I cattolici abbandonano Bersani", o "I cattolici dimenticano Prodi" se non addirittura "I cattolici sconfessano Nichi Vendola"; però, applicando all'inverso il metodo di cui sopra potrei farlo se citassi il passo estremamente di destra, estremamente anti-arcobaleno, estremamente avverso all'andazzo eticamente molle di mezza Italia sul quale non ho visto soffermarsi alcun giornalista (ma sarà una mia mancanza): "Nel corpus del bene comune non vi è un groviglio di equivalenze valoriali da scegliere a piacimento, ma esiste un ordine e una gerarchia costitutiva".

Che poi ben venga Todi con tutti i suoi todini ma questo discorso del cardinal Bagnasco era già stato fatto da padre Dante che con mirabile dono della sintesi l'aveva racchiuso in una terzina del Purgatorio (X, 124-126): "Non v'accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l'angelica farfalla, /che vola a la giustizia sanza schermi?". Ditelo al titolista del noto quotidiano intitolato come un dialogo di Platone, diteglielo che il fulcro del discorso era la farfalla e non il verme.

lunedì 17 ottobre 2011

Nichi Vendola, Oliviero Diliberto, Paolo Ferrero, Barbara Contini, Norma Rangeri e compagnia, coi loro solerti distinguo e con le loro indignate recriminazioni, col patetico tentativo di tentare di attribuire altrui una responsabilità che è sotto gli occhi di tutti, con la caccia all'infiltrato e col negare l'evidenza di come la guerriglia sia stata portata a Roma sabato scorso, mi ricordano gli indignados della Lombardia spagnola alla cui ignoranza Manzoni accredita il diffondersi incontrollato della peste: "Coloro che credevano esser quella un'unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl'insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell'altro gentiluomo milanese. Non mancavan, come abbiam detto, di quelli che non vedevano in quel fatto altro che uno sciocco scherzo, e l'attribuivano a scolari, a signori, a uffiziali che s'annoiassero dell'assedio di Casale. Il non veder poi, come si sarà temuto, che ne seguisse addirittura un infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo spavento s'andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse messa in oblio".

Nichi Vendola, Oliviero Diliberto, Paolo Ferrero, Barbara Contini, Norma Rangeri e compagnia, con la loro escalation di eufemismi lenitivi, mi ricordano gli esperti immunologi del Seicento di cui Manzoni riferisce la recalcitrante presa di coscienza dei dati di fatto: "In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l'idea s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, ma una cosa alla quale non si sa trovare altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s'è attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro".

Nichi Vendola, Oliviero Diliberto, Paolo Ferrero, Barbara Contini, Norma Rangeri e compagnia, con la loro dura condanna di un manipolo di circa cento facinorosi ben distinti da una vasta maggioranza di manifestanti pacifici colorati e creativi, mi ricordano i contagiati che, scoprendosi un bubbone, pensavano che fosse malata solo l'ascella e non che tutto il corpo avesse la peste.

venerdì 14 ottobre 2011

Sono passati sette anni dal breve periodo in cui vissi a Napoli. I miei coinquilini erano due donne colpevolmente vegetariane e un ardito rugbista che, alla prima ora di insediamento, sedé su un tavolino per telefonare disinvoltamente alla fidanzata e franò miseramente nel mezzo del medesimo, non essendosi accorto che sotto il velo di una tovaglietta il ripiano era in fragilissimo vetro. Sopravvisse tuttavia (lui; per il tavolino non ci fu verso) e nel giro di un paio di settimane si rivelò preziosissimo alleato nell'organizzazione di serate nelle quali convincevamo le due coinquiline ad andare al cinema, dietro promessa di raggiungerle immantinente, e invece ci mettevamo a cucinare ciclopiche matriciane che digerivamo sdraiandoci sul letto e sul divano, ben separati, di camera mia e ascoltando la radio.

Ora, sicuramente se le mie fidanzate non si odiassero a vicenda potrebbero agevolmente coalizzarsi per strangolarmi con maggior agio; però tutto mi si può dire tranne che non abbia un alto senso dell'amicizia, come dimostra (spero) l'anticipo di questa settimana su Quasi Rete che ricorda il recente e folle derby Lazio-Roma sospeso per impraticabilità di cervello.

giovedì 13 ottobre 2011

Uno dei principali tormenti degli storici, e in particolare di coloro che si occupano di storia di testi (filosofici, letterari, teatrali), è l'impossibilità di sancire con prove cogenti la maggior parte delle idee non chiaramente espresse nei medesimi testi ma che sembrano balenare qua e là come puntini da unire in una figura coerente. Per molti versi il lavoro dello storico in questi casi è orribilmente simile al paradossale giochino inventato da Renzo Arbore per Indietro tutta, quando faceva inquadrare un volto muto e immobile mettendo in sovraimpressione la scritta: "Cosa-sta-pensando-quiz".


Su Tempi in edicola questa settimana recensisco l'ardita ipotesi di Elisabetta Sala, secondo la quale Shakespeare avrebbe disseminato le proprie opere di indizi per testimoniare a contemporanei e posteri la propria segreta fede cattolica.

domenica 9 ottobre 2011

Ora che sono a Pavia posso tornare alla Messa latina che viene celebrata ogni domenica mattina alle 9:30 in San Giovanni Domnarum: Messa difficile perché è juxta Pium V, col celebrante voltato che farfuglia, e perché la chiesa che la alberga è nascosta in un cortile apparentemente privato per rintracciare il quale bisogna ricordarsi che è di fronte al liceo Taramelli, provvidenzialmente chiuso in concomitanza con la celebrazione domenicale; Messa resa famosa da un vecchio articolo di Carlo Rossella su Panorama e da un'adeguata analisi di Camillo Langone nella Guida alle Messe che Mondadori pubblicò un paio d'anni fa e che recensii su Stilos per festeggiarne la seconda ristampa. Oggi però, solo oggi e indipendentemente dall'individuo specifico, mi è venuto in mente che oltre alla miglior rappresentazione della sacralità, oltre alla perfetta gestione dei silenzi, oltre che al richiamo di una tradizione che è stato quantomeno astruso mettere fuori legge per cinquant'anni, oltre al latino che è meglio dell'italiano e soprattutto dell'inglese, oltre ai paramenti non inquinati dall'iconoclastia né dall'iconomania, oltre alla provvidenziale salvezza dai canti simil-sanremesi con cui la Chiesa post-conciliare ha tentato di sabotarsi, c'è un motivo preclaro che mi porta a scegliere con sempre maggior convinzione la Messa juxta Pium V: non vedere la faccia del prete favorisce la verosimiglianza del sacramento.

giovedì 6 ottobre 2011

Cara lettrice, caro lettore, internet è il regno dell'approssimazione, della confusione e della democrazia (che sono più o meno la stessa cosa) e conduce agevolmente a malintesi dei quali la più malintesa di tutti è la convinzione che chiunque possa accedere a internet abbia automaticamente l'accesso a una sorta di cosa in sé post-kantiana che coincide con la verità. Le rivelazioni di wikileaks, il blog di Beppe Grillo, le rivoluzioni arabe scatenate dall'abuso di twitter e compagnia cantando sarebbero la conferma che il mondo così come lo vediamo dal vivo è mera rappresentazione mendace, dovuto all'inganno intessuto ai nostri danni da parte di un machiavellico complotto ordito dal governo (tutti i governi), da una nota associazione di pedofili vestiti di sottane rosse (tranne uno che ha la sottana bianca), dalla carta stampata (tutta tranne il Fatto Quotidiano), dalla televisione (rea di usare l'ingannevole montaggio), da Vasco Rossi (ma solo dopo i sessanta) e dai nostri occhi incapaci di discernere l'inesistenza della realtà che ci circonda. Esiste solamente ciò che possiamo leggere su internet affidandoci al sacro criterio di oggettività della rete, ma questi sono tempi grami per coloro che San Giovanni Evangelista (terza lettera, ottavo versetto) aveva definito con lungimiranza "cooperatores veritatis". Nel giro di due giorni altrettante mazzate: prima un sito satirico, che non consocevo, ha chiuso per precauzione onde temeva ritorsioni da parte di un noto erogatore di clippini su facebook, del quale non sono fan; poi wikpedia ha sostituito a ognuna delle sue migliaia di pagine un lugubre comunicato indirizzato alla cara lettrice e al caro lettore per presagire tempi duri dovuti a non so che legge bavaglio, omettendo di specificare che su internet girano fin troppe fesserie anonime che rendono necessario un giro di vite. Il comportamento del sito è assimilabile a quello dello spacciatore che, dopo averti passato roba gratis, d'improvviso smette di dartela per capire cosa saresti disposto a fare; e infatti nel giro di cinque minuti s'è mosso in armi l'esercito degli utenti di social network (espressione da Tg1 che è un po' come dire: la cerchia di possessori di elenco telefonico) che ha provveduto a un'iniziativa che più drastica non si potrebbe: creare su facebook la pagina "Salviamo wikipedia!". Io non metto in dubbio che costoro, essendo utenti di wikipedia, siano i depositari della verità, ma mi preoccupa l'idea di dover lasciare l'Italia in mano a costoro che, travolti dalla propria pigrizia informatica, restano inchiavardati sulla sedia senza provare l'istinto non dico di spingersi fino ad aprire un'enciclopedia vera, di carta e con autori fededegni, ma nemmeno di controllare se funzionino regolarmente le versioni di wikipedia in inglese, francese, spagnolo, tedesco, cinese, swahili, urdu... Saranno pure i depositari della verità ultima incontrovertibile e il futuro indubbiamente apparterrà a loro; ma mi preoccupa oltremodo l'idea di dover lasciare l'Italia in mano a gente che sarebbe capace di dirti che Steve Jobs è morto di dolore per il ddl sulle intercettazioni.

martedì 4 ottobre 2011

Ho lasciato passare uno, due, tre, quattro, cinque giorni; ora, notando che ogni mattina mi svegliavo d'accordo col me stesso della sera prima, ho deciso di affrontare l'argomento. Il 29 settembre era il compleanno di Silvio Berlusconi, che compiva tre quarti di secolo, e nelle borgate più sordide di internet, gratificate sovente da un'indebita visibilità, si sono moltiplicati gli auguri di morte. Non sto parlando di diritto alla satira (che sarebbe accettabile al limite per "Buon compleanno e speriamo che sia l'ultimo") ma di asserzioni becere che non avevano niente di umoristico e che puntavano dritti al cuore del problema: Berlusconi deve morire, anzi è auspicabile che Berlusconi schiatti immantinente. Ora, io non credo che - come recitava il titolo di un noto volume - l'amore vinca sempre sull'invidia e sull'odio; non credo nemmeno che l'Italia e il mondo siano divisi a compartimenti stagni come la lavagna nel gioco del silenzio, con tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall'altra (trovo più confacente la discriminante avanzata da Renato Pozzetto ne La Casa Stregata: "Tutte le puttane da una parte e tutti i froci dall'altra"). Quindi non sono portato a ritenere che i sostenitori di Berlusconi siano tutti dediti al fair play nell'agone politico, però ho scartabellato un po' e non ho trovato molti auguri di morte a Bersani, a Vendola, a Di Pietro, a Fini; a Rutelli figuriamoci, me l'ero perfino dimenticato. Gli unici auguri di morte che ho trovato ripetuti in tromba erano a Berlusconi e al Papa, questi ultimi equamente suddivisi fra auguri di morte all'individuo Ratzinger e auguri di morte a chiunque ne ricopra il ruolo istituzionale. Allora mi sono ricordato che qualche anno fa avevo scritto su queste stesse pagine virtuali un pezzo intitolato Za la Mort, che risentiva di vari difetti ispirato com'era dallo scoramento per l'evoluzione dell'affaire-Englaro; tuttavia, leggendolo in parallelo alla serie di auguri di pronta sparizione per Berlusconi e per il Papa, ho notato che lasciandomi trascinare ero riuscito a vederla lunga in alcuni arditi accostamenti:

Un tempo i comunisti mangiavano i bambini. Ora hanno gusti più sofisticati. (...) E ai miei amici che tifano per la morte indotta, ritenendola un segno inequivocabile di civiltà: da un lato mi preoccupano perché sono gli stessi che tifano per i mussulani, denotando un certo cupio dissolvi. Dall'altro mi terrorizzano perché, se domani loro dovessero trovarsi nelle condizioni della Englaro, io starò lì a pregare che Dio li tenga in vita, e che gli uomini si adeguino; loro invece faranno un carnevale in piazza per difendere il mio diritto di essere ucciso.


Dunque io non credo affatto che l'amore vinca sempre sull'invidia e sull'odio ma pian pianino vado convincendomi che esista una minoranza aggressiva e preoccupante, lo zoccolo duro di un'Italia dei livori che in ragione della propria irragionevolezza epatica desidera costituire una nazione finalmente moderna con la morte di Berlusconi, la morte di Ratzinger, la morte di tutti quelli che finiscono nelle grinfie dei mussulmani e la morte di tutti gli altri di fianco a una spina staccata.