mercoledì 30 maggio 2007

Non è bene che l'uomo sia solo

(Gurrado per Books Brothers)

Vecchio film di Woody Allen, non ricordo il titolo. In un galleria d’arte contemporanea nel bel mezzo di Manhattan, l’occhialuto protagonista si avvicina a un’intellettuale solinga che sta mestamente considerando un quadro inguardabile, e le chiede se ha programmi per venerdì sera. “Venerdì sera penso di suicidarmi”, fa quella. “E sabato sei libera?”.

Esistono due maniere di rapportarsi alla morte (nonché alle sconosciute da approcciare nelle gallerie d’arte): la si può ritenere la fine di tutto oppure il passaporto per l’immortalità; parimenti, il rifiuto della sconosciuta abbordabile segna per i materialisti la definitiva sconfitta, per gli spirituali l’inizio della battaglia. Tanja, la protagonista dello sbalordente primo romanzo di Lara Vapnyar (Memorie di una musa, Neri Pozza, 2006), è nata e cresciuta nel materialismo dell’Unione Sovietica e se ne rende conto il giorno della morte di sua nonna, circostanza nella quale suo zio dichiara: “Che cos’è la morte? La morte è il nulla. Siamo atei, per noi non c’è vita dopo la morte”. Tuttavia lo Spirito soffia dove vuole e Tanja, per quanto ancora ragazzina, è spiritualmente molto più matura dello zio bolscevico; lo Spirito soffia dove gli pare e l’immortalità arriva a Tanja tramite il racconto della vita privata di Dostoevskij, chiuso fra gli estremi di due donne opposte: Apollinarija (Polina), l’imprevedibile amante che lo ispirava tormentandolo, e Anna Girgor’evna, la devota dattilografa che lo sposa subito dopo la composizione de Il Giocatore e che lascia trascorrere gli anni di capolavoro in capolavoro quasi senza accorgersi che il marito è uno scrittore.

Tanja sogna, immagina nel dettaglio la vita amorosa di Dostoevskij e Polina, la vede con distinzione e giunge fino a sentire Dostoevskij vivo e presente di fianco a sé, immortale con la carica seduttiva degli occhi di diverso colore, uno nero e l’altro marrone. Capisce che per liberarsi dell’ateismo materialista (sia chiaro, è una ragazzina quindi non la pensa in questi termini, ma noi siamo vecchi e saggi quindi sappiamo che è lo Spirito a condurla) deve intraprendere una necessaria migrazione purificatrice (dall’Unione Sovietica all’America, versione postmoderna dell’exitus Israël) e garantirsi l’immortalità diventando una reincarnazione di Polina. Per questo le serve un Dostoevskij, e fortuna vuole che da un po’ di tempo se ne trovino a bizzeffe (se non conoscete l’America, pensate all’Italia: basta un’ospitata dall’ammirevole Bignardi, basta una recensione fatta da qualcuno che non sia io, basta una comparsata su Radio3 o una presentazione in Feltrinelli; basta, da qualche settimana, comprare i fascicoli di un corso di scrittura per corrispondenza e voila, ecco il Dostoevskij-fai-da-te). Le basta sedersi in prima fila a un pubblico reading nell’Upper West Side e, un mese dopo, Tanja assurge al rango di musa.

Il Dio creatore è ebraico; lo scrittore, creatore in sedicesimo, dal quale Tanja si trasferisce a vivere è un barbuto ebreo. Si chiama Mark Schneider e ha scritto un libro che Tanja non riesce a leggere, perdendosi nei meandri dei periodi interminabili, dei riferimenti incrociati, dell’intellettualismo compiaciuto. Così come sulle prime l’uomo ama Dio perché non gli riesce di comprendere la sua creazione, Tanja adora Schneider perché il suo romanzo è incomprensibile ed egli stesso appare irraggiungibile: vuole essere parte della sua divinità, del suo genio, della sua immortalità – e, visto l’ostacolo linguistico, deve diventarlo tramite una comunicazione non verbale, esclusivamente corporea.

Dura poco più di duecento pagine, il romanzo di Lara Vapnyar, però riesce a intersecare temi talmente diversi in almeno tre differenti livelli di narrazione, che partono a raggiera dal fulcro della vita di Tanja e dal suo diario. Viene la depressione a pensare come sia trattato il sesso da buona parte delle scrittrici italiane (narratologicamente; di persona non lo so) mentre si leggono le lucidissime considerazioni della Vapnyar sul corpo come strumento di comunicazione e sul peccato come doloroso lasciapassare per l’immortalità: nell’Unione Sovietica, materialisticamente scopre che “l’atto sessuale era semplice, accessibile, perfettamente privo di qualsiasi significato romantico e, cosa davvero disgustosa, molto comune”. Altrettanto, in America, si corica con Schneider e spiritualmente decide che “l’opera grande e misteriosa di una musa debba iniziare con quel piccolo fremito del corpo di un genio, un’esplosione minore, il quieto zampillo del suo sperma dentro di lei”. In Tanja i due mondi si toccano, si fondono, si confondono l’uno nell’altro. Lo spiritualismo giudaico (frutto di un Dio i cui comandamenti hanno viaggiato fra le pieghe delle lenzuola, prescrivendo la riproduzione e impedendone gli abomini) si guarda nello specchio impassibile del materialismo sovietico (fonte di un sesso che, al pari di ogni altra attività umana, è pura meccanica scientificamente regolabile).

Io lo dico sempre alle mie ammiratrici: ragazze, non fidanzatevi con uno scrittore. Innanzitutto, di solito lo scrittore non scrive: e infatti Schneider si barcamena fra i mille impegni derivatigli dalla pubblicazione precedente, classifica le recensioni proprie e altrui, passa ore dallo psicanalista o in palestra (senza fare particolari distinzioni fra i due ambienti), guarda la tv e beve il caffè. In secondo luogo, quando scrive, lo scrittore diventa macchinetta insopportabile: infatti Tanja spia dal primo momento all’ultimo Schneider nell’atto della creazione del suo nuovo romanzo, e decide di appuntare sul proprio diario, con stupita dedizione, gli atti più insignificanti che accompagnano la composizione: “Mangiava! Dormiva! Faceva a pezzetti una pagina di giornale! Mangiava ancora un po’! Dormiva di nuovo!”.

I punti esclamativi hanno vita breve nella vita e nella letteratura; poco tempo basta a Tanja per perdere ogni stupore nella sua catalogazione (“Mangiava. Dormiva. Faceva a pezzetti una pagina di giornale”) e acquisire un’autocoscienza autonoma che la ponga in maniera critica di fronte a Schneider come scrittore (anzi, visto che nella circostanza Tanja spia l’atto dello scrivere, potremmo dire tout court a Schneider come scrivente). Poiché lo scrittore null’altro è che un uomo (diceva Wordsworth, a man speaking to men, un uomo che parla agli uomini, anche se di rado costoro capiscono qualcosa), e visto che l’analisi del procedimento compositivo di Schneider porta necessariamente con sé anche la disamina del suo essere uomo, quasi una disamina etologica, il rapporto fra Tanja e Schneider viene minato dal non essere più Tanja una musa adorante (e adorata) ma un insuperabile e continuo vaglio critico, un punto interrogativo dietro ogni parola che esca dalla macchina da scrivere di Schneider.


Così Tanja si guadagna la sua porzione di immortalità, molto diversa da come l’aveva immaginata: non divenendo la riedizione di Polina ma avvicinandosi sempre più all’odiata Anna Grigor’evna, non vivendo della gloria riflessa ma perpetrando sé stessa in un marito e dei figli, non scrivendo con accuratezza il suo diario, le Memorie di una musa appunto, ma rileggendolo con spassionato distacco, anni e anni dopo, forte della contraddizione che “l’immortalità non porta niente di buono; ma quante sono le persone che non la desiderano?”.

martedì 29 maggio 2007

Il diavolo con le scarpe da tennis

(Gurrado per Ore Piccole)

Di James Robertson in Italia non è mai stato tradotto nulla. Eppure nel mondo anglofono ha esordito sette anni fa, pubblicando due romanzi (The Fanatic nel 2000 e Joseph Knight nel 2003), il secondo dei quali – come non so per scienza infusa ma apprendo dalla biografia in terza di copertina – ha dato il la a una impressionante sfilza di riconoscimenti letterari. Ora, per quanto si debba sempre considerare che in Gran Bretagna vengono assegnati più premi di quanti libri si pubblichino, e si debba di conseguenza tarare il successo conseguito da Robertson (che la foto in bianco e nero mostra relativamente giovane e decisamente ridanciano) notando che i suoi onori sono sempre stati limitati alla nativa Scozia senza mai invadere il resto della Gran Bretagna, non ho potuto fare a meno di notare che nelle librerie di Oxford le pile del suo ultimo romanzo, The Testament of Gideon Mack (ora in edizione Penguin), calano abbastanza rapidamente e necessitano sempre di un rimbocco. Significa che anche al di fuori dei confini patri la gente lo compra, probabilmente lo legge, presumibilmente ne parla bene ad altra gente che a sua volta lo compra – e così via col grande ciclo della vita editoriale. Ragion per cui ho allungato la mano verso la pila e ne ho comprato una copia anch’io.

Sono stato fortunato perché a quanto pare questo Testament è un tentativo letterario difforme da quello in cui Robertson pareva essersi specializzato (volendo estremizzare, il polpettone storico-patriottico), e soprattutto perché – per il solito discorso che ogni libro non è mai solo, ma si rinvigorisce o viene soffocato nella serra di altri libri che l’hanno preceduto nella vita di ciascun lettore – trovava in me un retropensiero florido. Chi è interessato al mio retropensiero continui pure a leggere, ma sappia che non ha nulla a che spartire col romanzo in questione. Chi giustamente preferisce sentir parlare del libro salti del tutto il paragrafo seguente. Chi si è già annoiato farebbe bene a cambiar pagina e cercare foto di Maria Sharapova: ha tutta la mia comprensione.

Il retropensiero gurradesco risale al 1733, quando ad Etrépigny (grossomodo presso Sedan) morì un curato cattolico il quale si peritò di lasciare un lunghissimo testamento. Per evitare che cadiate addormentati, mi limito a dirvi che il contenuto del testamento consisteva in una refutazione del cattolicesimo, dai dogmi fondamentali alla pratica quotidiana, e una virulenta professione di ateismo, cosa che decisamente non sta bene in bocca a un parrino. Il prevosto si chiamava Jean Meslier e la sua opera, ehm, Mémoire des pensées et des sentiments de J*** M*** prêtre curé d’Estrepigny et de Balaives sur une partie des erreurs et des abus de la conduite et du gouvernement des hommes où l’on voit des démonstrations claires et évidentes de la vanité et de la fausseté de toutes les divinités et de toutes les religions du monde pour être adressé à ses paroissiens après sa mort et pour leur servir de témoignage de vérité, à eux et à tous leurs semblables, eccetera eccetera eccetera. Se un testo con un titolo del genere viene ancora ricordato ai giorni nostri (ricordato non solo da me, intendo) è perché una trentina d’anni dopo Voltaire la rese immortale rimettendolo in ordine, tagliando, ricucendo, edulcorando l’ateismo e – modernamente – editandolo radicalmente a proprio uso e consumo, dando al contempo al Testament di Jean Meslier la possibilità di diventare un mito iconoclasta.

Ovviamente di tutto ciò non c’è la minima traccia nel romanzo di Robertson, però arguisco che (vista la sua formazione storica) l’autore possa aver calcato la coincidenza nell’atto di scrivere il fittizio testamento di un sacerdote ateo. Come Voltaire, anzi, l’autore inventa un fittizio editor (lo chiama Patrick Walker, possibile riferimento a San Patrizio che, cammina cammina, convertì mezza Gran Bretagna) e attorno a lui tutta una squadra il cui compito è comprovare la veridicità del testamento di padre Gideon Mack. Le differenze, tuttavia, sono sostanziali. In primo luogo Gideon Mack non è cattolico ma presbiteriano, appartenente alla chiesa nazionale (stavo per scrivere “regionale”, ma poi ho temuto di essere scuoiato da orde di giovanotti in kilt) denominata Kirk, e quindi non solo può sposarsi ma può addirittura essere a sua volta figlio di un prete. Ancora, e piuttosto sorprendentemente, Robertson ha scelto di ambientare la storia di Gideon Mack non nei secoli andati ma a ridosso dell’ultimo cambio di millennio. Infine, a differenza di Jean Meslier trecento anni fa, Gideon Mack viene convertito dal diavolo.

Gli capita infatti, nel corso di un pomeriggio piovoso quasi quanto questo qui (e ora ditemi che anche voi siete capaci di fare allitterazioni del genere come se niente fosse) – dicevo, gli capita di finire in un fosso e risvegliarsi con un elegante sconosciuto (vestito completamente di nero, non fosse per le scarpe da tennis) che lo sorveglia, lo accudisce, lo cura e lo rifocilla. La gratitudine cede ben presto il passo alla preoccupazione una volta che in padre Mack si fa strada l’idea che il suo ospite abbia un che di sovrannaturale, benché camuffato da un sorridente understatement, e che questi possa essere nientemeno che il demonio. Lo è, nientemeno, come il demonio spesso gli spiega; e se ha scelto di manifestarsi in Scozia non è perché padre Mack sia in qualche modo un eletto, ma per una banale questione logistica: “Mi piace la Scozia”, spiega, “e ci passo un sacco di tempo. (…) Mi piace il clima miserrimo. Mi piace la gente miserrima, il fatalismo, la negatività, la violenza che traspare sempre appena dietro la superficie. E mi piace la maniera in cui vi approcciate alla religione” (p.283).

Questa notazione geografica, con il conclusivo riferimento all’approccio nei confronti della religione, spiega la scelta cronologica. Infatti se l’ambientazione fosse stata, poniamo, settecentesca – se insomma Gideon Mack non fosse stato che un Jean Meslier con la cornamusa, perdonate il luogo comune ma ho fretta e un sacco di cose da fare – la situazione sarebbe stata un inedito (e decisamente raro) sacerdote ateo che deve perpetrare un inganno insopportabile ai danni di una comunità fedele e superstiziosa. Ambientando il suo romanzo alla fine del XX secolo e all’inizio di questa porcheria del XXI, James Robertson ha mostrato la religione fuori tempo massimo. Non solo il suo sacerdote, padre Mack appunto, è un miscredente, un ateo, un uomo che presta fede soltanto alla scienza e alla ragione (più materialista di un illuminista, dunque); ma anche la comunità in cui si muove è una comunità che di religioso ha ben poco, che si presenta a messa solo per Natale, o magari ogni domenica ma sempre con un larvato scetticismo.


Non si capisce se l’incredulità del sacerdote sia una causa o una conseguenza dell’ambiente in cui esercita.La reclusione col diavolo, sotto questo aspetto, è oltremodo istruttiva: in quanto Gideon Mack, che non sa fare un passo senza il proprio cervello (e che come ogni uomo raziocinante crede di essere coraggioso e vive di paure), si ritrova d’improvviso in un mondo diverso, in cui nulla è fatato o incantato come lo si immaginerebbe, ma semplicemente in cui, dialogando con il suo unico diabolico interlocutore, si rende conto che le leggi di ragione sono sospese e che l’incredulità – lungi dall’essere la soluzione di ogni enigma – è una camicia di forza che va smessa. Così che quando ritorna fra i suoi, e racconta con lucidità estrema la sua avventura demoniaca, padre Gideon Mack non viene creduto; e ancor più non viene creduto in quanto la racconta con estrema pacatezza e, sopra ogni cosa, ragionevolezza: lui che pensava di doversi guardare dalla superstizione delle masse, al contrario, si ritrova divorato dalla loro stessa incredulità, soprattutto perché il suo raziocinio nel considerare la strabiliante convivenza di tre giorni col diavolo – la sorprendente gentilezza dei suoi modi, l’estrema ragionevolezza di indossare scarpe da tennis per camminare più comodo per le rocche scozzesi – è vista inevitabilmente come sintomo di pazzia. In definitiva, l’incredulo Gideon Mack muore convinto di aver visto, mentre gli altri erano ciechi: ragion per cui la sua realtà viene considerata alla stregua di allucinazione. E, a un certo punto della sua reclusione, nel suo cervello iperattivo serpeggia il dubbio che il suo nereggiante ospite con le scarpe da tennis, il deceptor potentissimus, sia in realtà un travestimento di Dio, una prova o un trabocchetto. Chissà, gli risponde il diavolo.

lunedì 28 maggio 2007

Recensire la stagione

(Gurrado per Il Resto del Pallone)

1. La sorpresa Poche chiacchiere, l’impresa di quest’anno l’ha fatta la Reggina. Partire con 15 punti di penalizzazione avrebbe steso un bue, e peggio ancora segnare tre goal alla prima partita e perderla. La bravura (conclamata) di Mazzarri è stata di essere riuscito a tenere saldo un gruppo che, per quanto privo di primi violini, ha dato risultati insperati non solo in termini di punti ma anche come efficienza: con 52 reti segnate, la Reggina ha avuto il secondo miglior attacco delle squadre finite fuori dal giro europeo, ossia dall’ottavo posto in giù. La salvezza, benché attesa fino all’ultima giornata e benché forse irraggiungibile senza lo sconto di pena (4 punti in più), è stato il premio meritatissimo per una squadra che avrebbe potuto ambire ben altri traguardi; fermo restando che forse, senza la zavorra iniziale, non avrebbe saputo trovare le energie per eccellere. Sempre restando nel campo delle escluse dall’Europa, meglio della Reggina ha fatto solo l’attacco dell’Atalanta, che è anche riuscita a rispolverare Vieri. Una funzionale organizzazione di gioco, qualche bella soddisfazione (il 2-0 sul Milan, il 2-1 sulla Roma, tanto per dire) e un ottavo posto conclusivo niente male per una squadra appena tornata in A. In generale, va notato che tutte le tre neopromosse si sono salvate, più o meno scricchiolando, il che rende l’idea dell’alto livello della Serie B dello scorso anno, e fa ben sperare per quello, ancora più alto, che si annusa per la A dell’anno prossimo.

2. La conferma 97 punti, miglior attacco, distanza siderale dalla seconda e diciassette vittorie una dietro l’altra: solo l’Inter poteva vincere il campionato. In più, ha dimostrato di saper vincere non solo le partite che avrebbe dovuto pareggiare (andata e ritorno con la Fiorentina, tanto per dire), ma anche quelle che era quasi riuscita a perdere (la Supercoppa con la Roma, se ve la ricordate ancora). In più, ha in Ibrahimovic un investimento sicuro per il futuro (se resta dov’è). In più, finalmente Mancini l’ha fatta giocare con formazione e tattiche coerenti, e sugli schermi di San Siro è andato in onda addirittura il ritorno del terzino sinistro. Di meno, invece, l’eccessivo rilassamento nella seconda parte della stagione e il sospetto che senza il terremoto estivo sarebbe arrivata ancora una volta terza - ma c’è tutto l’anno prossimo per dimostrare il contrario.

3. La domanda Il Catania s’è salvato e il Chievo è stato retrocesso; il punto sottratto al Siena per inadempienze finanziarie alla fine non s’è rivelato decisivo, salvandoci forse da un’estate di polemiche che, personalmente, mi sento di rinfocolare così: e se dopo la brutta faccenda al Catania, oltre alla squalifica del campo, fosse stato tolto qualche punticino?

4. La delusione Il Milan, senza se e senza ma. Sia chiaro che mi sto limitando a considerare il campionato, e che nella circostanza al Milan non è riuscito di fare quello che gli era sempre riuscito benissimo (distanziare l’Inter di una decina di punti in un paio di mesi) e di cui Galliani si era detto tanto sicuro quanto lo ero io, rimettendoci peraltro una birra con un amico interista. Ha sbagliato tutta la campagna acquisti estiva ed è dovuto correre ai ripari in gennaio. Ha perso tutti e due i derby, come non avveniva da 25 anni. È stato sconfitto dalla Roma, dal Palermo e dall’Atalanta (Udinese e Reggina oggettivamente non contano): una tragedia. Soprattutto, penalizzazione nonostante, è stato un grave errore focalizzare l’attenzione sul quarto posto come obiettivo massimo: una squadra del genere deve pensare a vincere comunque.

5. La follia Se l’Ascoli è stato retrocesso con una notevole dose di inevitabilità, di sfortuna e soprattutto facendo vedere cose gradevoli (Pagliuca, Eleftheropoulos, Soncin, Bjelanovic, Paolucci), almeno è riuscito a non arrivare ultimo, scavalcando in extremis il Messina che riesce nel record di venire retrocesso in serie B per due stagioni di fila. Temendo che essere richiamati all’improvviso in prima divisione e presentarsi con una squadra inadeguata non fosse sufficientemente temerario, quelli che a Tutto il Calcio Minuto per Minuto vengono chiamati i peloritani hanno provveduto a mettersi in balia dei voleri (isterici) della tifoseria, finendo per richiamare Giordano che era stato cacciato con ignominia poco prima, esonerandolo di nuovo, e facendo nelle ultime 27 giornate meno punti di quanti ne avessero fatti nelle prime 11. Alla stessa maniera, lascia perplessi il costume di richiamare l’allenatore esonerato, messo in voga dal Cagliari e dal Torino, come ad ammettere che se i presidenti (e i tifosi) avessero avuto più pazienza le squadre avrebbero concluso con meno fiatone.

6. Il goleador Questo campionato a 20 squadre non mi piace per niente e continuo ad aspettare che si torni a 16; ma, come previde qualche anno fa il sommo Adalberto Bortolotti, la (metaforica) apertura della frontiera bassa e il conseguente inabissamento del livello medio se non altro portano con sé una maggior facilità di realizzazione per gli attaccanti – non a caso, nell’ipertrofica serie A degli anni ’50, gli attaccanti erano bulimici, si pensi a Nordhal. Quest’anno abbiamo riscoperto Totti, che s’è infilato il pollice in bocca per 26 volte, indorandosi la scarpa e riscattando un Mondiale vinto senza brillare come ci sarebbe piaciuto (per non dire che evidentemente la sua scelta di rinunziare alla nazionale è giustificata dai dati di fatto, e per non dire inoltre che è prolifico non solo sul campo, visto che se continua a questo ritmo lui e sua moglie invertiranno da soli il calo demografico). Però è bello vedere che dietro di lui la classifica marcatori vede un ritorno di attaccanti abituati al fango e alle sterpaglie (Lucarelli, 20 goal; Riganò, 19 goal; Amoruso e Spinesi 17, Rocchi 16), nonché una coppia meravigliosamente viola, Toni e Mutu, che con 16 reti ciascuno ha segnato più della metà di tutti i goal della scintillante Fiorentina.

7. L’anno prossimo Indubbiamente è ancora presto per fare i maghi, ma è prevedibile che l’Inter voglia tentare una volta per tutte di vincere la Champions e magari riaprire, come nei favolosi anni ’60, un ciclo europeo di trionfi milanesi. Questo potrebbe lasciare maggior spazio in Italia: non alla Juventus, che sembra ancora in stato confusionale e farebbe bene a guardarsi sempre le spalle, e forse nemmeno al Milan, che ha bisogno di un po’ di puntelli nonostante che di notte balli sempre elegantemente; ma alla Roma e (giusto dietro) alla Fiorentina, che hanno fatto vedere il miglior calcio dell’anno, che hanno due allenatori fenomenali che iniziano a mantenere tutto ciò che promettevano e che hanno bisogno soltanto di riserve più solide per diventare grandi.

Piove sui giusti e sugli inglesi

Buongiorno, oggi è festa.

Qualche santo particolare? No. Il ricordo di una data storica? No. Il compleanno del vicino di casa del giornalaio di un compagno di scuola del pronipote della Regina? Macché: in Inghilterra oggi è festa perché è lunedì.

Sia chiaro, questo non accade ogni settimana, altrimenti sarebbe una pacchia; ma la vita da queste parti prevede che nel corso dell’anno alcuni lunedì, accuratamente scelti a cazzo di cane, siano bank holidays ovvero giorni in cui gli uffici restano chiusi, i negozi adottano orario ridotto, i supermercati hanno gli scaffali semivuoti e in cui ovviamente piove. Nell’anno del Signore 2007, in Inghilterra (e in tutto il Regno Unito) è festa il 19 marzo, il 9 e il 23 aprile, il 7 e il 28 maggio (oggi, per chi fosse particolarmente distratto), il 27 agosto e basta. Si tratta di sei date selezionate con l’unico criterio di seguire una domenica, e di consentire agli indigeni di divertirsi bevendo un giorno di più e dormendo una mattina ancora.

Per questo piove – come ho capito due ore fa, quando per andare a fare colazione ho dovuto noleggiare un canotto. Infatti dovete sapere che nel Dizionario Filosofico, a suo tempo, Voltaire inserì un articolo dedicato alle leggi civili ed ecclesiastiche; nel quale si lamentava che i contadini della sua tenuta, in quanto cattolici, erano tenuti a non lavorare in ogni festa religiosa, a parte le domeniche, causando così a sé stesso, alla tenuta e alla nazione una perdita di denaro che lui quantificava in non ricordo più quanti soldi. La soluzione che Voltaire proponeva era che lo Stato prendesse in mano la situazione, eliminando ogni festa che non costituisse il consueto e debito riposo settimanale, che consente di riprendere il lavoro della settimana successiva con maggior baldanza.

L’Inghilterra, ovviamente, l’ha fatto. A queste latitudini un cattolico deve rassegnarsi alla consapevolezza che l’Epifania, Ferragosto (Assunzione della Vergine), Ognissanti e l’Immacolata siano giorni feriali, e che la commemorazione religiosa sia ridotta a una sfilza di normali (rispettivamente, quest’anno) sabato, mercoledì, giovedì e ancora sabato. Si tratta di quattro giorni che sono stati gloriosamente ricuperati al lavoro, al guadagno e alla laicità. Per non parlare delle feste patronali: io, per quanto distante possa trovarmi da Gravina, ho seguitato a festeggiare il 29 settembre (San Michele Arcangelo) andando a messa e poi sbevazzando con gli amici. Perfino il giorno di Pasqua, come ricorderanno i più nullafacenti fra i miei lettori, con annesso Lunedì dell’Angelo è stato voltato a bank holiday weekend, ossia niente più a che vedere con la religione bensì solo e soltanto con questo lunedì pendulo, vuoto e ovviamente piovoso.

Il diabolico tentativo, neanche tanto larvato, è di sterilizzare l’anima dei sudditi di Sua Maestà, nascondendo le date significative (6 gennaio, 15 agosto, 1 novembre, 8 dicembre) e sostituendole con lunedì a capocchia (“Sua Maestà la Regina si pregia di comunicarvi che al mattino del 28 maggio sarete dispensati dall’utilizzo della sveglia”), nei quali far finta che sia domenica, far festa, uscire con gli amici e andare a sdraiarsi nei campi. Al che Domineddio, che evidentemente non è anglicano, fa piovere ininterrottamente per tre giorni, e gli inglesi rimpiangono di non stare in ufficio.

venerdì 25 maggio 2007

Lo scudetto dove lo metto?

(Gurrado per Il Resto del Pallone)

[Sono passate più di trentasei ore ma Gurrado è ancora irreperibile; fonti attendibili lo danno impegnato a correre esultante per il centro di Oxford, vestito soltanto di un vecchio polsino rossonero. In sua sostituzione, pubblichiamo l’intervento di un ragionevole ed equilibrato corsivista nerazzurro che ha preso temporaneamente possesso della sua tastiera.]

Il Milan ha dimostrato ancora una volta i propri limiti concedendo al Liverpool di segnare a un minuto dalla fine; e solo l’arbitro Herbert Fandel, il De Santis tedesco, ha consentito di camuffarli troncando anticipatamente i minuti di recupero dopo una pronta telefonata congiunta di Leonardo Meani, Tiziano Crudeli e Bobo Maroni, abilmente celati in una cabina telefonica di Platìa Mounastiraki, nel pittoresco quartiere della Plaka. Se avesse fischiato venti secondi dopo, il Liverpool avrebbe avuto tutto il tempo di segnare due o tre volte inframezzando ogni goal con reiterati giri di campo, coreografici balletti e fuochi d’artificio, privando il Milan di una vittoria in fin dei conti immeritata e stabilendo una volta per tutte qual è la squadra più forte del mondo, cioè l’Inter.

È evidente che la Champions League è una competizione minore. Per vincerla al Milan è bastato superare il Bayern Monaco, il Manchester United e il Liverpool, mentre l’Inter ha dominato la serie A surclassando negli scontri diretti il Palermo, contenendo la grintosa risalita dell’Empoli e mettendo il sigillo definitivo sul campo del Siena. Per non dire quant’è difficile confermarsi: il Milan non arrivava in finale di Champions League da un’eternità, due anni, e non la vinceva da due eternità, ovvero quattro anni. Al contrario, l’Inter domenica prossima festeggerà il suo secondo scudetto consecutivo, aggiungendo trionfo a trionfo quando ancora sono negli occhi di tutti le spettacolari immagini del momento decisivo dello scorso anno: la riunione fra Guido Rossi, già membro del consiglio d’amministrazione dell’Inter, e Guido Rossi, al contempo ex e futuro presidente di Telecom (azionista dell’Inter e sponsor del campionato), per ottenere il via libera all’assegnazione dello scudetto da parte di Guido Rossi, commissario straordinario della Federcalcio.

Inoltre sono stato molto infastidito dalla vergognosa scena dei giocatori del Milan che, disposti su due file, sbeffeggiavano il Liverpool applaudendo coram populo gli avversari sconfitti; che significativa distanza con la corsa irrefrenabile di Julio Cruz e compagni a Valencia per complimentarsi con i vincitori, stringere loro la mano e porgere l’altra guancia! La classe, la sportività, l’eleganza non sono cose che si imparano in una notte: così alla demagogia sfrontata di Berlusconi, il quale ha parlato di “grande successo per Milano” e ha concluso addirittura con un “viva il Milan e viva l’Inter”, noi rispondiamo con l’aristocratico gesto dell’ombrello mediante il quale durante il derby Massimo Moratti ha salutato il ritorno in Italia di Ronaldo, uno dei più grandi campioni della storia, al quale l’Inter deve gli scudetti del 1998 e del 2002, che le verranno assegnati quest’esate per soprammercato. E gli allenatori, poi: come si fa a dire che Carlo Ancelotti, con due Champions League e uno scudetto (peraltro nemmeno consegnato a tavolino), abbia vinto più di Roberto Mancini il quale nel suo palmarès può vantare la Coppa Italia, e la Coppa Italia, e la Coppa Italia, eccetera?

Sarò facile profeta dicendo che poco resterà nell’immaginario collettivo dei due goal irregolari di Inzaghi (il primo segnato abbrancando il pallone con due mani, ficcandoselo sotto l’ascella e correndo nella porta del Liverpool dopo aver infilato un dito nel naso del portiere; il secondo in evidente posizione di fuorigioco, poiché al momento del passaggio di Kakà le immagini inequivocabili di Inter Channel mostrano Inzaghi che sta scavalcando la pista di atletica per precipitarsi in curva urlando “Parakalò, parakalò”), a differenza dei quattro goal con cui, due all’andata e due al ritorno, l’Inter ha dominato la Roma nella finale di Coppa Italia, non riuscendo a vincerla soltanto per il disonesto maneggio di far iniziare la partita dell’Olimpico alle 17 senza dirlo all’Inter che s’è doverosamente presentata in campo, come da accordi pregressi, alle 21. Ma la Roma ha ben poco da vantarsi, poiché nel decisivo scontro in campionato l’Inter ha regolata perdendo 1-3, che è la metà esatta di 2-6; e in generale concedendo all’unica squadra che ha ardito contenderci la vittoria in campionato di segnare solamente 13 goal in cinque partite.

Una curiosa e fortunata coincidenza vuole che il computer sul quale sto scrivendo, per via di una perversa correzione automatica, sostituisca ogni volta al nome di Inzaghi il termine indaghi: si tratta di una prefigurazione e di una profezia di quello che avverrà quest’estate, quando un pool investigativo composto da Elio Corno, Evaristo Beccalossi ed Enrico Bertolino, capitanato da Francesco Saverio Borrelli e dal Cardinal Martini, renderà pubbliche delle foto di Carlo Ancelotti che si accende di nascosto una MS pur avendo fatto voto di smettere di fumare in caso di vittoria sul Liverpool: il che porterà alla revoca della vittoria del Milan in Champions, all’obbligo di giocare tutte le partite casalinghe della prossima stagione sul campo di Novosibirsk e utilizzando una palla medica, al ritiro della laurea conseguita dal figlio di Galliani e alla sostituzione del termine “Silvio Berlusconi” col termine “Alfonso Pecoraro Scanio” in tutti gli atti della scorsa legislatura; all’estradizione di Ronaldo e all’ergastolo per Carlo Pellegatti; nonché, con prevedibile effetto domino, alla fucilazione di Alessandro Del Piero e alla cottura del suo uccellino, alla retrocessione in serie inferiore di Roma, Lazio, Fiorentina, Chelsea, Manchester United, Bayern Monaco, Sporting Lisbona, Ajax, Real Madrid, Barcellona e Sassari Torres; alla conseguente assegnazione all’Inter di tutte le edizioni finora disputate di Champions League, Coppa Uefa, Intertoto, Torneo Anglo-Italiano, Coppa Carnevale, Memorial “Adolf Hitler”, Sei Nazioni, America’s Cup, Tour de France, Ordine della Giarrettiera, Premio Nobel per la Matematica (appositamente istituito) nonché di svariate puntate, mai trasmesse, de La Prova del Cuoco.

Insomma il Milan avrà pur vinto questa settima Champions League, la quinta con Paolo Maldini e fregnacce varie, ma ci sono tutte le premesse perché l’anno prossimo al Trofeo Tim sia tutta un’altra storia; a meno che non lo vinca di nuovo la Juventus.

mercoledì 23 maggio 2007

Il gioco dell'otto

(Gurrado per Il Resto del Pallone)

Avevo otto anni e al primo goal di Gullit andò via la luce. O meglio, la luce scelse di andare via un attimo prima che ci fosse il goal, fulminandoci sull’immagine di lui che, avanzato sornione verso il centro dell’area, muoveva senza sforzo apparente la gamba destra per accompagnare la palla nella porta sguarnita dello Steaua; lasciandoci incerti se il goal fosse veramente diventato un goal (ma certo che era un goal, la porta era vuota, la palla andava dritta dentro) e al contempo certissimi che con un colpettino, piano piano, a porta vuota, Gullit aveva cambiato l’inerzia della partita, del Milan, della mia esistenza e della storia tutta.
(Barcellona, 24 maggio 1989: Milan 4 – Steaua Bucarest 0)

Avevo nove anni e il Benfica fu un pensiero che mi assalì d’improvviso, nel tardo pomeriggio, tornando a casa dal catechismo. Il tempo di citofonare era stato lo spartiacque fra la giornata comune (la scuola, il pranzo, la chiesa) e la giornata particolare, unica, cioè la finale; e, al contempo, il nanosecondo in attesa che mi venisse aperto il portone già mi aveva fatto capire che la finale non era unica perché era una replica dell’anno prima, e non era una replica perché ogni volta è un’emozione, anzi un terrore a sé stante, che con maggiore o minore resistenza si trascolora in vittoria.
(Vienna, 23 maggio 1990: Milan 1 – Benfica 0)

Avevo dodici anni e imparai la tragedia. Nell’intervista poco prima della partita, già sul campo di Monaco, Berlusconi aveva dichiarato che era come aspettando un figlio: sono tutti importanti ma dopo il primo il nervosismo cala inevitabilmente, diventa consuetudine. Figuriamoci il terzo, pensai, tanto più che ero forte dei due esempi precedenti grazie ai quali, qualsiasi cosa accadesse, quale che fosse l’avversario definitivo che si andava a scoprire, alla fine vinceva sempre il Milan con la sua bianca maglia di riserva. Mi sedetti tranquillo e li vidi entrare in campo vestiti di rosso e nero.
(Monaco di Baviera, 26 maggio 1993: Milan 0 – Olympique Marsiglia 1)

Avevo tredici anni, avevo pochi brufoli e avevo paura del Barcellona. Iniziavo a capire di calcio più di quanto lo amassi, e per guardare una partita ci mettevo più cervello che trasporto, passaggio che segna definitivamente la fine dell’infanzia, un po’ come quando si capisce che Babbo Natale non esiste e che quindi i regali provengono da Gesù Bambino. Ovviamente, nell’occasione, il cervello non era mio ma dei vari opinionisti i quali a loro volta non facevano che riportare le opinioni di Crujff, persona che non ha mai brillato per umiltà (avendone ben donde, peraltro) e che all’epoca allenava il Barça, quindi era vagamente di parte. Per la prima volta, distintamente ricordo di aver accettato a priori l’eventualità della sconfitta e di aver perfino dichiarato che tanto valeva guardare su Rai3 la diretta del voto di fiducia alla Camera al governo, tanto per restare in argomento, Berlusconi. Prima di pranzo, sul pullman che mi riportava a casa, un compagno di scuola disse: “Secondo me, se Zubizarreta non è in giornata, possiamo anche fargliene tre o quattro”; scendendo, risposi: “Ma va’”.
(Atene, 18 maggio 1994, Milan 4 – Barcellona 0)

Avevo quattordici anni e fingevo di collaborare a una rete televisiva locale. Nutrendo una smodata passione per il Milan, e facendo ben poco per tenerla nascosta, un’ora prima del telegiornale delle otto (edizione di quasi cinque minuti) mi avevano dato libera uscita per prepararmi in santa pace alla visione, esprimendo parimenti un intrinseco commento sulla mia utilità in loco. Ne approfittai ben felice, con l’ottimismo dei ginnasiali, contando sul fatto che se avevamo massacrato il Barcellona potevamo ben superare l’Ajax, che per quanto siano scricchiolanti le premesse alla fine il bene (cioè il Milan) vince sempre e soprattutto che stando a fonti certe avremmo di nuovo giocato in bianco. Iniziai a festeggiare e accesi la tv.
(Vienna, 24 maggio 1995, Milan 0 – Ajax 1)

Avevo ventidue anni e non ci speravo più: le finali mi sembravano un ricordo lontano, confinato all’infanzia all’adolescenza e agli anni trascorsi a Gravina. Tanto per dire, per l’università mi ero trasferito a Pavia da cinque anni e nella circostanza specifica ero a Roma da un amico, milanista anche lui; per non intristirci guardando la partita da soli, ammalati entrambi dello stesso scetticismo, avevamo raggiunto altri cinque o sei amici a casa loro. Tutti, tutti juventini. Dopo pochi minuti io e il mio amico urlammo perché avevano annullato un goal a Shevchenko. Nell’intervallo mangiammo un’ottima e abbondante insalata di riso. Subito dopo urlarono gli juventini per una traversa di Antonio Conte. Ai rigori, gentlemen’s agreement, patto fra gentiluomini: qualunque cosa fosse accaduta, ma proprio qualunque, compresi l’invasione degli ultracorpi e il diluvio universale, tutti ma proprio tutti avremmo conservato il silenzio per rispetto della sofferenza altrui, milanisti e juventini. Non una parola: e alla fine mi trovai a urlare con il mio amico, chiuso nel bagno di una casa nella quale ero entrato per l’unica volta nella mia vita.
(Manchester, 29 maggio 2003, Milan 0 – Juventus 0, poi 3-2 ai rigori)

Avevo ventiquattro anni e ci avevo fatto l’abitudine. Buona parte dei miei amici modenesi l’avevo conosciuta guardando con loro le partite dei turni precedenti e alternando le presentazioni vicendevoli a salaci commenti sulla discutibile creatività di Serginho. Dovendo guardare la partita in una sala tv pubblica, mi ero garantito la prima fila sistemandovi il mio deretano un’ora prima del calcio d’inizio, e bene avevo fatto perché mi sarebbe bastato arrivare con cinquanta secondi di ritardo, poniamo, e non avrei visto il primo goal di Maldini in sette, e dico sette, finali di Coppa dei Campioni. Avrei anche potuto andarmene fra il primo e il secondo tempo, poniamo, dopo che al goal del 3-0 avevo percorso la distanza fra me e la tv strisciando sulle ginocchia come davanti a una reliquia, quando uno dei vari interisti che mi capita di conoscere mi apostrofò: “Congratulazioni, ormai…”; e io: “Aspettiamo i supplementari.”
(Istanbul, 25 maggio 2005, Milan 3 – Liverpool 0, no, Milan 3 – Liverpool 3, poi 2-3 ai rigori)

Ho ventisei anni e sono a Oxford da due mesi.
(Atene, 23 maggio 2007, Milan – Liverpool).

lunedì 21 maggio 2007

Il ciclismo è metafisico

Nel 2004 vivevo a Napoli e, avendo la fortuna di avere fra le varie una coinquilina maschilista la quale riteneva che al fine settimana la donna dovesse sfaccendare e l’uomo riposarsi, indipendentemente dall’evenienza che l’uomo (nel caso specifico, io) non avesse faticato gran che durante la settimana, e altresì indipendentemente dall’evenienza che io (nel caso specifico, uomo) fossi o meno d’accordo con questa veduta – dicevo, nel 2004 vivevo a Napoli e al sabato e alla domenica il mio principale impegno era leggere la Gazzetta dello Sport, altrimenti la mia coinquilina si arrabbiava e diceva che non mi riposavo abbastanza. Non sia mai.

Nel 2004 vivevo a Napoli (come forse avrete capito) e nutro un distinto ricordo delle Gazzette che scandivano i fine settimana nonché l’indegna propaggine del weekend che a Napoli andava dal lunedì successivo al venerdì precedente. Nel 2004 vivevo a Napoli ed è stato un lunghissimo weekend sommerso di pagine rosa, mentre la mia coinquilina mi chiedeva di sollevare i piedi per consentirle di dare una lavata a terra.

A farla breve, nel 2004 vivevo a Napoli – questo è sufficientemente appurato – e un sabato mattina, non avendo altro da fare che leggere la Gazzetta dello Sport, ho trascorso una buona mezz’ora a soppesare un’intervista a Piersilvio Berlusconi, nella quale veniva notificata con non poco orgoglio l’ideazione di un reality show sul mondo del calcio, il primo reality show sportivo, etc. etc. I risultati si sono visti: nel 2005 e nel 2006 vivevo a Modena e a lungo andare perfino i più sfaccendati fra i miei amici (taluni sfaccendati quasi quanto me) si sono annoiati a guardare Campioni; ma nel 2004 vivevo a Napoli e pur senza avere la palla di vetro decretai ad alta voce e aprioristicamente che questo reality show calcistico non sarebbe andato da nessuna parte. La mia coinquilina, benché anglocanadese e interessata soprattutto all’hockey su ghiaccio e a Salvator Rosa, per fare conversazione mi chiese perché.

Perché il calcio si basa esso stesso sulla struttura del reality; ci sono prove, eliminazioni, alterni destini; perché dall’avvento di Sky e prima ancora Telepiù la telecamera non ha più confini che la trattengano; perché anche prima, ma prima prima prima, quando ci si limitava ad ascoltare la radio due ore a settimana, c’era un filo che legava il tifoso alla squadre e a ogni singolo calciatore (esattamente, come nella pubblicità della Ford) sette giorni su sette. Quindi l’idea stessa di Campioni zoppicava da principio perché sarebbe arrossita tentando di rispondere alla domanda: “Se già mi emoziono alla sola idea che esista Gigi Buffon, se trepido a ogni bollettino medico su Maradona, se mi sento un pezzo in meno alla morte di John Charles e ancora mi commuovo a vedere vecchie foto di Alviero Chiorri (baffuta mezzala della Cremonese dal 1984 al 1992), che [minchia di] bisogno c’è di creare una squadra di calcio dal nulla appositamente per farmi sforzare di affezionarmi a – come avrei poi appreso che si sarebbero chiamati – Rocca, Calanchi e Bertaccini?

Nel 2004 vivevo a Napoli e questo è grossomodo stato il discorso che (a parte la parola che ho racchiuso fra parentesi quadre) ho espletato mentre la mia coinquilina eliminava i fondi del caffè. Se la mia coinquilina non fosse stata una storica dell’arte canadese (nel senso di storica canadese dell’arte) bensì un rugbista di Civitavecchia avrei avuto sicuramente modo di essere più convincente. Fortuna vuole che nel 2004 vivevo a Napoli anche con un rugbista di Civitavecchia (non avevo più case, avevo più coinquilini), col quale talvolta festeggiavo il sabato andando a mangiare untissime tracchie da Nennella (Trattoria “da Nennella” – Via Lungo Teatro Nuovo, 103– ovviamente Napoli – guai a chi non ci va) così da poter fare al riguardo un discorso più articolato e convincente. Non sul calcio, però, sul ciclismo.

Nel 2004 vivevo a Napoli e non avevo il televisore, evenienza che trovo tragica in generale e maggiormente quando c’è il Giro d’Italia. Io e il rugbista di Civitavecchia, quando c’erano le tappe importanti, andavamo a nasconderci in un bar vicino al posto in cui eravamo pagati per stare, sperando che nessun collega passasse di lì e ci scoprisse a contare pedalate, battiti al minuto, chilometri e pendenze. Nel 2004 vivevo a Napoli e in un bar di Via San Sebastiano, alle quattro di un pomeriggio, ho scoperto Damiano Cunego e ho avuto la netta sensazione che avrebbe vinto anche pedalando al contrario. Nel 2004 vivevo a Napoli e mi svegliavo presto, andavo a fare colazione in un bar/pasticceria dietro casa (dove caffè e cornetto insieme costavano un euro) e coi soldi risparmiati mi compravo la Gazzetta dello Sport, a meno che non sapessi che l’aveva già comprata il rugbista di Civitavecchia. Solo una volta, nel 2004 a Napoli, in casa mia entrarono due copie della Gazzetta dello Sport, comprate indipendentemente da me e dal rugbista, poiché nessuno dei due voleva correre il rischio di rimanerne senza. In copertina c’era Cunego e Cunego era un fenomeno.

Cunego era un fenomeno e un miracolo, perché tre mesi prima avevo bussato alla porta della camera vicino alla mia per dire al mio coinquilino rugbista che era morto Pantani. Senza televisione e senza internet, avevamo trascorso la serata fino all’una di notte ad ascoltare la traballante radiolina che mi ha seguito in tutti i miei spostamenti prima di crepare a Modena qualche mese fa. Pantani non c’era più: non c’era più il ciclismo? Valeva la pena? Vedere gente che suda in bicicletta per elaborare il lutto? Tre mesi dopo, alle quattro del pomeriggio, in un bar di Via San Sebastiano io e il rugbista avevamo risposto che ne valeva la pena, ancora.

Perché se il calcio è un reality (e quindi non avrebbe avuto senso fare un reality sul calcio), il ciclismo è metafisico, e quindi non c’è modo di liberarsene. Vedere Cunego che avrebbe vinto il Giro anche saltellando sulla ruota posteriore della sua bici non stimolava tanto l’ammirazione per l’atto sportivo in sé, ma consolava dello spreco di Pantani. Era un’altra delle infinite storie accumulate in anni e anni di interminabili pomeriggi, a guardare corse piatte in cui sembrava non succedesse nulla e invece – e invece – erano il malto che ci consentivano di voler bene a ciascuno di loro, a Zulle che non sapeva fare le discese, a Breukink che era finito in un fosso, a Leblanc che aveva una gamba più corta dell’altra, a Perini che non aveva mai vinto una corsa, a Olano che vinse il mondiale con una ruota a terra, a tutti. Di ricordare il furgoncino contromano sulle strade di Atene (1996), il gatto che taglia la discesa del Chiunzi (1997), il signore vestito da diavolo (tutti i Tour de France da che io ho una memoria cosciente), e così via in eterno.

Il ciclismo, soprattutto, è metafisico perché mette l’uomo di fronte ai suoi limiti. Non dico solo le salite, la fatica, quelle sono parte del gioco. Il ciclismo è metafisico perché non puoi staccartene per il resto dell’anno e nessuna corsa finisce col traguardo. Nel 2003 vivevo a Pavia e un giorno arrivò il Giro d’Italia; dopo la premiazione, nel casino generale, incrociai Antonio Salutini (per gli ignoranti in materia, è un importante direttore sportivo) e prima ancora di spiegargli chi ero e cosa volevo gli chiesi come stava Cipollini. Qualche giorno prima Cipollini era caduto male e a me non interessava sapere se e quando sarebbe tornato a correre, o come sarebbero stati adattati i suoi allenamenti, o se sarebbe cambiata la tattica dei suoi rivali, mi interessava Cipollini come persona; la caduta aveva mostrato un limite, volevo sapere come stava per capire come stava fronteggiando il limite. Salutini rispose lasciando intendere che glielo chiedevano tutti – non gli chiedevano del corridore, gli chiedevano dell’uomo.

Il ciclismo mette l’uomo di fronte ai suoi limiti ed è il motivo per cui, se ci avete fatto caso, in qualsiasi altro sport si spera nella sconfitta dell’avversario mentre quando passa una corsa ciclistica si battono le mani senza distinzione, dal primo all’ultimo, e si battono le mani istintivamente. Accade per due motivi: primo perché, a furia di guardarli, li conosciamo tutti, e quelli che ancora non conosciamo siamo curiosi di conoscerli e capire dove possono arrivare e decifrare che persona sono, come reagiranno alla vittoria e alla sconfitta (nel 1998 una tappa partì da Matera e io rincorsi Missaglia per chiedergli se avesse visto Bugno, con la stessa confidenza con cui avrei chiesto alla coinquilina canadese se avesse visto il rugbista di civitavecchia; Missaglia senza batter ciglio rispose che era ancora in pullman, come la coinquilina canadese avrebbe risposto che era ancora in doccia). Poi perché, ed è più importante, l’avversario del ciclista è fuori dalla corsa, non si tratta di un altro ciclista ma dell’istinto a mettere il piede a terra, a piegarsi sul sellino a piangere perché non si riesce più ad andare avanti (Stéphane Heulot in maglia gialla, Tour de France 1996, settima tappa), a non allenarsi d’inverno e mangiare come un porco (Jan Ullirch tutti gli anni), a stringere verso le transenne e, ovviamente, a doparsi. Se il ciclismo iniziasse e finisse con la corsa, chi cade, chi cede, chi si dopa sarebbe uno sconfitto, un fallito e un reprobo; ma il ciclismo dura in eterno, giorno dopo giorno, e tutti i tifosi spingono ogni corridore nella continua lotta contro sé stesso.

Nel 2004 vivevo a Napoli e da allora un filo metafisico mi lega a Damiano Cunego, che avrebbe vinto il Giro anche in monociclo; lui non sa nemmeno che esisto ma io so della musica che ascolta, del matrimonio, della bimba, della mononucleosi, di tutti i suoi santi giorni. Lui non sa nemmeno che esisto, ma sa che quando sale sulla bicicletta io sono lì a spingerlo, e con lui tutti gli altri prima durante e dopo di lui, e con me qualsiasi tifoso, dovunque, comunque, sempre.

(A questo punto la scena prevede che mi telefoni il mio biografo di corte e mi chieda: “Scusa Gurrado, ma dove vivevi tu nel 2004?” “A Napoli, mi pare.” “Ah. Chissà che mi credevo.”)

venerdì 18 maggio 2007

Attenzione capolavoro

(copyright Ore Piccole)

Prima stavo lavando le mutande (a cosa mi sono ridotto) e m’è tornato in mente un episodio risalente a parecchi anni fa – grossomodo, a occhio e croce, alla seconda liceo (classico) – in cui una compagna di classe avendo saputo che io in futuro avrei gradito fare lo scrittore di professione (speranza che mai come negli ultimi tempi è stata ridotta a fuoco fatuo) mi aveva chiesto, appunto, come si facesse a scrivere. Risposta: “Ti siedi e scrivi”.


Ora, indubbiamente a sedici anni si dicono scempiaggini a frotte e alcune se ne fanno addirittura (aver iniziato a scrivere, in quegli anni lì, è indubbiamente una di esse) però c’è del vero nella mia risposta stando all’inciso che ho scovato nelle pagine auree di Everyman, l’ultimo romanzo di Philip Roth che ho appena letto nell’edizione Vintage e che perfino i muli sanno essere stato tradotto in Italiano con lo stesso titolo per Einaudi, con la sola differenza che la copertina tutta rossa è diventata tutta nera. L’inciso, che con le dita ancora profumate di detersivo economico mi sto affannando a ricercare pagina per pagina, era riferito alla pittura ma per la stessa generalità del verbo che utilizza può venire riferito a qualsiasi arte in generale, perfino a quella che a sedici anni tentavo di produrre con maggior serietà che oggigiorno, a ventisei; dice (l’ho trovato): “I dilettanti aspettano l’ispirazione; noialtri ci alziamo e ci mettiamo al lavoro”. La sentenza è attribuita a Chuck Close, un pittore i cui prodotti non mi fanno rimpiangere di vederci sempre meno, ma è presumibile che sia condivisa anche dallo stesso Philip Roth; il quale, com’è noto, s’è messo al lavoro a ventisei anni e non s’è fermato più.


Se c’è una cosa che colpisce in Everyman, a parte il contenuto stesso del romanzo, un breve spaccato di un’esistenza intera scandita da ricoveri e operazioni e racchiusa fra due scene di morte, il funerale del protagonista e la sua definitiva perdita di coscienza – dicevo, se c’è una cosa che in Everyman colpisce l’addetto ai lavori, lo specialista, il lettore di professione e il tentato romanziere è che pare quasi di sentire il ticchettio della tastiera nella casa deserta dell’autore. Può somigliarle, ma non è retorica; le 182 pagine (peraltro stampate in largo) dell’edizione inglese sono per così dire trasparenti, sembrano uno di quegli orologi da polso che non mostrano solo l’indefettibile scorrere delle lancette ma anche il meccanismo di rotelline sullo sfondo, e fanno capire quanta perizia e quanto talento ci voglia a stabilire che ora è.


Non mi è parso un riferimento casuale, di conseguenza, la passione che il protagonista matura in gioventù per gli orologi riparati dal padre, e le ore che trascorre a osservarne i meccanismi diversi per trarne una linea di condotta generale. Non fanno così anche i romanzieri, che leggono – almeno dovrebbero leggere – di tutto e all’infinto per poi estrarne un prodotto originale? Ancora, il protagonista non diventa orologiaio, come pure sarebbe stato comprensibile, ma prima grafico pubblicitario e poi pittore. Perché? Presumibilmente perché in entrambi i casi vuole decorare la tecnica di un valore aggiunto, che possiamo definire arte.


Philip Roth, in quanto autore, si comporta come il suo protagonista: arriva alla prosa artistica esclusivamente tramite un’infinita precisione tecnica, e Dio solo sa se non dovrebbe sempre essere così, sommersi da libri mediocri come siamo. Il principale piacere che ho ricavato dalla lettura di Everyman è consistito nella progressiva intuizione, pagina dopo pagina, del lavoro di limatura delle frasi e sistemazione delle parole compiuto dall’autore; che è la stessa cosa detta da Edmund Burke e perfino da Kant qualche secolo fa (come appunto avevo studiato a sedici anni, quando rispondevo avventatamente alla mia compagna di classe) riguardo al piacere che si ricava dall’osservazione di un oggetto costruito perché risponda a uno scopo preciso, ossia il giudizio teleologico. Leggendo le pagine di Everyman senza riuscire a interrompersi prima di averlo finito si percepisce distintamente il bello e si intuisce, in lontananza, il sublime.


Se non che, si fosse limitato a questo, Philip Roth avrebbe reso il suo romanzo un esercizio rococò; invece gli ha conferito dello spessore legando il protagonista a una storia che va nella direzione esattamente opposta al perfetto meccanismo degli orologi e al valore estetico aggiunto alla tecnica, ossia il lento, inevitabile, imprevedibile e incomprensibile deterioramento del corpo. Quando il protagonista ancora fanciullo immagina di fare lo scrittore (come chiunque finisca poi per fare un altro mestiere, volente o nolente), progetta un romanzo che si sarebbe chiamato Vita e morte di un corpo maschile. Quasi tutti i romanzi di Philip Roth traboccano di estetica del corpo, ma in Everyman si scorge distintamente che – nella cornice di morte che lo trascolora – il corpo è un ammasso di peccati (o comunque guai) e malattie, è l’apertura di un abisso sotto i piedi del protagonista, e lo chiama a un destino che rende inutile lo studio del meccanismo perfetto. Il corpo è sì un meccanismo, ma sempre difettato, e la malattia – l’improvvisa interruzione del corretto funzionamento – è un capriccio incoercibile che, di sicuro, ha solo la sua definitiva vittoria, immediatamente o nell’arco di qualche decennio.


Per questo Everyman è un breve capolavoro, perché contiene in sé stesso il proprio antidoto; è al contempo un’osservazione del sublime e – duecentottant’anni dopo Alexander Pope – una specie di Perì Bathous (Dell’Abisso, ossia l’Arte Poetica dell’Affogamento), parodia alla stessa poetica del sublime. L’uomo può osservare, concepire, produrre un meccanismo perfetto, poi si tocca sotto l’inguine e scopre che c’è una protuberanza che non va, e non riesce a razionalizzarla.
Il riferimento colto più trasparente è quello del titolo stesso, che riprende quello di un dramma morale del XV secolo in cui l’uomo, ossia Everyman, Ognuno, deve districarsi dalle grinfie della Morte ma, soprattutto, sa che può sconfiggerla soltanto con la salvezza ovvero santità, cioè con la vita eterna. Philip Roth priva il protagonista di questa prospettiva escatologica, mostrandoci la sua completa assenza nella prima scena, in cui la sua figura viene delineata dai discorsi commemorativi, e chiudendo il romanzo con la perdita dei sensi e la frase “Non era più”. Per questo motivo andrà all’inferno, ma non si può negare che, nell’economia narrativa del testo, non ci sarebbe stata soluzione più ragionevole e dovuta.




Infine - poiché ogni parola che scrivo in più vi allontana dal momento in cui inizierete a leggere il romanzo, se non l’avete già fatto – il protagonista di Everyman è forzatamente anonimo, ma non del tutto. Viene specificato che suo padre, orologiaio e gioielliere, aveva voluto attirare clienti chiamando il suo negozio “Everyman’s Jewelry Store”; trovata commerciale che (oltre a spostare la focalizzazione dell’insegna dal produttore al fruitore, ma questa è un’altra storia) consente a Philip Roth di collegare genialmente il protagonista dell’antico dramma morale al contenuto del suo romanzo, giustificando la scelta del titolo di là dallo sfoggio di erudizione. Giustificando anche, peraltro, l’assenza del nome del protagonista, al quale fa sempre riferimento col pronome singolare maschile (e vi assicuro che in Italiano ci si riesce bene o male, visto che possiamo elidere il pronome e limitarci alla forma verbale, mentre per risultare scorrevoli in Inglese bisogna necessariamente essere appunto Philip Roth): assenza che non è completa perché si presume, come dimostra il suo stesso destino di orologio scassato, che il protagonista abbia ereditato il nome che suo padre ha scritto, pensando a tutt’altro, sull’insegna della bottega.

giovedì 17 maggio 2007

Il modello inglese

Voi non avete idea di quant’è incazzato il vescovo di Fulham. Manco a dirlo, ce l’ha col governo (e quindi, manco a dirlo, pur essendo colpa di Tony Blair se la vedrà Gordon Brown) perché dal primo luglio parte lo smoking ban, ossia il divieto di fumare in qualsiasi ambiente pubblico, perfino il pub. Potreste dedurne che il vescovo di Fulham è un forte fumatore; sbagliereste. Al vescovo di Fulham girano i santissimi perché lo smoking ban prevede che in ogni ambiente pubblico chiuso sia scritto in bella evidenza su tutti i muri che è vietato fumare. Anche in chiesa.

(Parentesi francese #1: stamattina Campanellino mi ha fatto sapere che, nonostante lei persista indefessa nello studio, a Parigi oggi è festa. Domando: “Per via di Sarkozy?”; aggiungo: “Se è per questo sarà festa per cinque anni”; risponde: “Stronzetto”. In realtà oggi sarebbe l’ascensione, ossia quaranta giorni da Pasqua, ma la Chiesa Cattolica festeggia alla domenica successiva. Lo stato francese, la cosa più laica che si possa immaginare, pur di contraddirla regala un giovedì libero ai suoi sudditi, pardon, elettori, insomma, ai suoi cosi.)

Voi non avete idea di quant’è incazzato John McDonnell. Per sgomberare il campo da ogni ambiguità, John McDonnell non è il vescovo di Fulham (quanto meno non ancora) ma un deputato laburista che ha deciso di salvare la democrazia candidandosi contro la leadership di Gordon Brown. Non so se sapete come funziona: Blair ha annunziato che si dimetterà il 27 giugno, pertanto il suo partito ha quaranta giorni di tempo, a partire da oggi, per trovare un sostituto. Può candidarsi chiunque abbia raccolto almeno 45 firme di colleghi parlamentari (in tutto sono 352, se non sbaglio), dopo di che ci sarebbe stata una vera e propria campagna elettorale e un voto a cui avrebbero partecipato soltanto i laburisti. John McDonnell, testualmente per amore di democrazia, aveva deciso di candidarsi contro Gordon Brown, ma questi ha sagacemente provveduto a raccogliere 308 firme tutte per sé; ne restano tutt’al più 44, e John McDonnell non potrà sfidare Gordon Brown, e Gordon Brown si candiderà da solo, e il prossimo primo ministro dell’Inghilterra sarà deciso così: votato dagli iscritti a un solo partito all’interno di una rosa di un solo candidato.

(Parentesi francese #2: da ieri mattina mi chiedo dove sia andata la macchina di Chirac, allontanandosi piano piano e vedendo progressivamente rimpicciolirsi, nello specchietto retrovisore, l’immagine di Sarkozy che fa ciao ciao con la manina.)

L’Inghilterra, come buona parte delle nazioni civili (cioè Israele) non ha una costituzione, perché non ne ha bisogno. Il potere politico è nelle mani della Regina, che fino a poco tempo fa non pagava le tasse per la semplice e ragionevole ragione che se le sarebbe pagate da sola, mettendosi nella tasca destra ciò che si sfilava dalla sinistra; la Regina può discrezionalmente nominare un primo ministro, che potrebbe anche essere il suo cagnolino o perfino Giovanni Masotti, ma la prassi è che nomini il capo del partito che ha preso più voti (dettaglio per gli insipienti: l’Italia è una repubblica e come tale si presuppone più democratica, ma il capo del partito che ha preso più voti non è Prodi): non è scritto da nessuna parte; ragion per cui non fa differenza se si diventa primo ministro con trenta milioni di voti o con le firme di trecento parlamentari. Il potere religioso è nelle mani della Regina, che per non avere noie lo subaffitta all’arcivescovo di Canterbury. L’anglicanesimo è religione di Stato (in Italia si blatera di ingerenza ecclesiastica nelle faccende statali e si spediscono proiettili in busta chiusa) e il primo ministro ha il potere di far affiggere l’avviso “Vietato Fumare” sulle colonne di tutte le chiese del Regno. Il vescovo di Fulham ha detto che è un’imposizione inaccettabile, è la goccia che fa traboccare il vaso; il Times stamattina riportava in prima pagina che Blair, non appena disoccupato, si convertirà al cattolicesimo; chissà - magari chi tanti anni fa pregava per la conversione dell’Inghilterra, sta con un po’ di ritardo iniziando a venire esaudito.

lunedì 14 maggio 2007

Come organizzare i propri affetti

Per dire quattro parole e sbagliarle tutte ci vuole indubbiamente un certo talento, che rientra senza dubbio nel (per fortuna di più ampio spettro) novero di talenti della ministra Emma Bonino. La quale un paio di sere fa, durante il Tg1 che cerco di seguire anche da queste piovose latitudini, ha dichiarato che la manifestazione di Coraggio Laico, ossia il piccolo carnevale di piazza Navona, intendeva tutelare i diritti di chiunque volesse scegliere come organizzare i propri affetti. Questo è in grande linee il succo del suo discorso, ma le ultime quattro parole (comprensive di articolo determinativo) sono una citazione testuale, e sono tutte sbagliate.

1. Come – Poniamo caso che la ministra Bonino entri nella libreria QI di Oxford (16 Turl Street, io ci sono passato sabato pomeriggio). Tale libreria è ampiamente applaudita negli ambienti intelligenti perché non cataloga i libri secondo nessun ordine tradizionale: non per autore, non per genere, non per editore, non lo snervante benché funzionale sistema Dewey. La ministra Bonino avrebbe dunque una certa difficoltà a orientarsi e a comperare, ad esempio, Alla Ricerca del Tempo Perduto. Apprenderebbe magari dai commessi che i sette volumi in questione sono così ripartiti: uno nel settore dei romanzi francesi, uno in quello dei classici del novecento, uno fra i capolavori dell’omoerotismo latente, uno fra le autobiografie, uno fra gli scritti di autori coi baffi, uno fra i testi più lunghi di mille pagine e uno fra i libri composti di più volumi. E questo già sarebbe abbastanza razionale, poiché invece lo scopo ultimo della libreria QI, edificata col preciso intento di trovare un’impostazione originale per la catalogazione dei libri, è far venire il giramento di testa ai clienti, cosa cui collabora non poco la sua struttura circolare. Se fosse entrata nella libreria QI di Oxford (16 Turl Street, io non ci andrò mai più), la ministra Bonino avrebbe capito che i DICO sono un’idea marcia come la pretesa di sistemare i libri secondo un ordinamento non codificato – o peggio ancora di codificare un ordinamento irragionevole – e che al confronto il matrimonio, con tutti i suoi difetti, è stabile come l’ordine alfabetico: che farà capitare Luciano De Crescenzo vicino a Don De Lillo, ma almeno ogni cosa è al proprio posto.

2. Organizzare – “Pronto, picci, sono Gurrado, dobbiamo organizzare il nostro affetto.” “Gurrado, ma che minchia dici mai?” “Giuraddio, l’ha detto la ministra Bonino al telegiornale, l’ho sentito con quest’orecchio”. E così via in un gran trambusto di organizzazione d’affetti, dalle fidanzate di là da venire ai passanti che saluto per strada, dagli uffici stampa delle case editrici a chi mi chiama perché ha sbagliato numero, intere caterve di relazioni a ragnatela che vanno ordinate, sistematizzate, classificate. La bizzarria dei DICO è che fanno passare per libertaria (e libertina) una legge che invece cancella ogni poesia dell’indefinito; un’idea stalinista per cui Gurrado e picci devono mandarsi tutta una serie di lettere raccomandate per spiegarsi nei minimi dettagli che relazione intercorre fra le loro due persone giuridiche. Quando un ministro, o una ministra, utilizza il termine organizzare per parlare delle vite private dei suoi elettori, insomma, qualcosa non quadra, non mi sembra che ci sia bisogno di dilungarsi.

3. I propri – Qui casca la ministra, e io mi dilungo. Perché la principale differenza fra il milione all’incirca del Family Day e i tre partecipanti di Coraggio Laico era (beninteso, stiamo parlando dell’idea generale sottesa a ciascuna delle manifestazioni) che i secondi pensano all’orticello di diritti e i primi al giardino di doveri. Non sono così scemo da ritenere che fosse un concetto condiviso da chiunque in Piazza San Giovanni, né tantomeno che ogni manifestante del Family Day abbia vissuto integerrimamente secondo questo principio aureo, ma grossomodo difendere l’esistenza e l’unicità della famiglia (maschietto + femminuccia = bambinelli) significa farla rientrare in un quadro che pieghi la volontà personale e sacrifichi i capricci adolescenziali a un bene comune che si riconosce più alto. Più alto innanzitutto perché – come raffigurato dalla croce che qui sopra unisce il maschietto alla femminuccia – una promessa assume maggior significato se controfirmata dal sovrumano (tradotto, una cosa è dire che Gurrado è unito a picci in nome del Padre del Figlio e dello Spirito, un’altra che Gurrado è unito a picci in virtù delle ministre Bonino, Bindi e Pollastrini). E poi, diciamocelo, se invece di Gurrado io fossi picci mi offenderei non poco all’idea che un uomo, in luogo di implorarmi di vivere con lui per tutto il resto della vita nostra e di promettermelo davanti al Padreterno e di accarezzarmi la pancia per nove mesi di fila, mi proponga un succedaneo progressista che suona grossomodo: “Senti, facciamo che ti mando una raccomandata in cui specifico che tu vivi con me ma sei libera di andartene quando vuoi, che i tuoi figli sono anche miei nella misura in cui sono condivisi [i progressisti parlano così, che volete farci] senza che per questo la nostra conformità genitoriale [idem come sopra] diventi un ostacolo alla loro integrazione nella società sovra-ultra-metafamiliare” – aggiungendo subito dopo: “E tieni presente che ti avrei detto queste precise identiche parole se anche tu fossi un uomo e ti chiamassi Arturo”. Ho amiche che non vogliono sposarsi; ho amiche che non vogliono fare figli; tutte costoro, però, vogliono vivere con un uomo e avere dei bambini. Vogliono la pera e non il torsolo, insomma: temono che il matrimonio le annoi e la gravidanza le sfiguri. Ci vorrebbe oggigiorno un poeta barocco che sorgesse in tutta la propria potenza semantica per spiegar loro che, vabbe’, possono non sposarsi ma non possono non invecchiare, possono non avere figli ma non possono non sfigurarsi, e che tutte le ministre Bonino di questo mondo non potranno preservarle da solitudine e decomposizione. Ci sarebbe voluto magari un sacerdote che ai tempi del catechismo, prima che l’iscrizione all’università e la quotidiana lettura della Repubblica avessero fatto il proprio corso, avesse spiegato a chiari termini che se non si decide di fare qualche passo indietro alla fine nessuno farà veri passi avanti verso di noi.

4. Affetti – Declinazione plurale di un termine debole. La ministra Bonino è intelligente e quindi ha capito mentre ancora parlava alle telecamere che un termine forte avrebbe stonato in conclusione del proprio discorsetto, fondato sull’assolutismo relativistico e volto alla sostituzione di un’opzione temporanea a una scelta definitiva (cosa nella quale c’è ben poco coraggio, laico o meno). La ministra Bonino sa le lingue pertanto non si offenderà se mi permetto di tradurre le sue quattro parole in altrettanti termini forti, che trascendono il senso limitato del suo appello, capovolgendolo: la questione non è come organizzare i propri affetti, ma perché garantire l’amore altrui.

PS per mia madre: picci non esiste.

giovedì 10 maggio 2007

Essere rossi oggi

Nel giro di poche ore l’Inghilterra tutta è stata scossa da due avvenimenti difformi ma speculari, oltre che estremamente indicativi. È bastato guardare un po’ di tv e tutt’al più leggere un quotidiano per rendersene conto.

Immagino che anche in Italia sia arrivata l’eco del bel gesto reso dal Chelsea prima della partita contro il Manchester United. I blu di Londra, secondi alle spalle dei rossi del nordovest, hanno reso omaggio ai freschi vincitori del campionato disponendosi su due file parallele e applaudendo i giocatori avversari mentre uscivano dallo spogliatoio. Ammirevole invero, e immagino i peana che si saranno alzati sulle reti televisive nostrane a magnificare lo spirito olimpico e il modello inglese e fregnacce varie. Se non che non poteva sfuggire il dettaglio che il diabolico Sir Alex Ferguson ha fatto spuntare dagli spogliatoi una squadra farlocca, imbottita di riserve inverosimili – dite la verità, voi lo sapevate che nel Manchester United giocava O’Shea? E Kuzsack? O, peggio ancora, lo sapevate che il cinese Dong, temerariamente schierato come prima punta, fosse pagato per giocare a calcio?

La faccia di John Terry, capitano del Chelsea e della nazionale inglese, era tutta un programma: costretto, poverino, ad applaudire pubblicamente una manica di sconosciuti che sei mesi prima avevano ancora il suo poster appeso in camera. Il diabolico Sir Alex Ferguson (lo stesso che, per intenderci, aveva genialmente staccato il biglietto per Atene prima di giocare la semifinale di ritorno col Milan) avrebbe potuto farla più grossa soltanto facendo comparire sul campo, fra le due ali blu dei plaudenti giocatori del Chelsea, undici manichini con le rotelle (uno a caso dei quali sarebbe tuttavia stato più utile alla squadra del surreale cinese Dong).

La stessa identica cosa è accaduta oggi pomeriggio, quando Tony Blair ha annunciato l’annunciato annuncio del suo ritiro dalla scena politica. I numeri sono tutti dalla sua parte: tredici anni alla guida del Labour, più giovane leader del partito in assoluto, gli ha fatto vincere le elezioni per la prima volta dopo diciott’anni, ne ha vinte tre di fila, ha governato per dieci anni, è stato il più giovane primo ministro della storia inglese a parte lord Liverpool, che comunque aveva come interlocutore privilegiato Napoleone e non Chirac, quindi erano decisamente altri tempi. Perfino agli occhi della politica inglese – molto più snella e ragionevole di quella italiana – la parabola di Blair è apparsa sorprendente e quasi miracolosa, così come sorprendente e miracoloso è stato il titolo vinto quest’anno, più che convincentemente e contro ogni pronostico, dal Manchester United. D’altra parte sempre di color rosso si tratta.

La Storia gli avrebbe dovuto riservare tutt’altro congedo. Se non che oggi pomeriggio, rinchiuso nel suo quartier generale come Hitler nel suo bunker, Tony Blair aspirava a somigliare a Churchill ma sembrava Dong, uno che con suo stesso stupore raccoglie applausi e ovazioni soltanto perché sta indossando per puro caso una maglia e degli onori altrui. Innanzitutto questo benedetto annuncio dell’addio è stato annunciato troppe volte, e dalle elezioni del 2005 non si faceva altro che dire: “Vedrete, si dimetterà nell’estate 2007” – come volevasi dimostrare. Di più, mai come questa volta Tony Blair (che pure ha un passato da attore di teatro) ha sbagliato i tempi rimandando l’inchino – come scriveva il Daily Telegraph stamattina – al momento in cui il pubblico è già andato via e restano solo le cartacce sul pavimento. Per aggiungere la beffa al danno, nel question-time presidenziale di ieri David Cameron, il giovane e bel leader dei giovani e bei conservatori, ha apostrofato il gabinetto Blair come “il governo dei morti viventi”; né si può dargli torto, visto che il primo ministro si sta spegnendo piano piano da un paio d’anni, il ministro degli interni (John Reid) s’è dimesso qualche giorno fa, il ministro dell’Europa Geoff Hoon è l’uomo più sbertucciato dai media inglesi già da quand’era capogruppo nel 2003 – e soprattutto visto che il ministro delle finanze Gordon Brown, successore designato di Blair, viene visto dagli inglesi e dai laburisti stessi come una fetta di bacon negli occhi. Evviva.

David Cameron avrà mille difetti; sarà vanesio, sarà ingenuo, sarà per certi versi troppo entusiasta rispetto ai gusti di queste piovose latitudini; dovrà inoltre prima o poi scontare la pena per essersi fatto propagandisticamente fotografare in metropolitana mentre leggeva l’ultimo romanzo di Ian McEwan (Ian McEwan! In metropolitana! Come se fosse un Veltroni qualunque!). Tuttavia bisogna dargli atto che un anno e mezzo fa, intervenendo nel suo primo question-time presidenziale, inchiodò Tony Blair alla profezia che oggi si realizza, e che recitava: “You were the future once”, “Lei era il futuro di tanto tempo fa”. Ieri pomeriggio, se non avesse avuto pietà, gli avrebbe anche potuto dire: “Lei è come il Manchester United, festeggia il campionato dopo aver parlato per mesi della Champions League”.

(Nota per i patrioti: sottolineo come questi pochi capoversi avrebbero agevolmente potuto essere dedicati al parallelo fra l’ambrosiana Inter, che manifesta la propria schiacciante superiorità perdendo 6-2 con la Roma, e il governo in carica che ribadisce la propria saldezza squacquerandosi nel giro di ventiquattr’ore su pensioni e famiglia. Avrei potuto, e molto facilmente; ciò nondimeno, poiché fra qualche mese dovrò pur trovar lavoro, non l’ho fatto: quindi, Romano, ricordati degli amici!)

lunedì 7 maggio 2007

Il Caimano al contrario

Ho appena finito di rovistare nella spazzatura (pratica che, ci tengo a sottolineare, non rientra nei miei cinque hobby preferiti) alla ricerca dell’Observer di ieri perché volevo raccontarvi che a pagina 35, quando si presuppone che il lettore sia troppo stanco per protestare e forse addirittura per accorgersene, c’è l’editoriale di una tizia che si chiama Nabila Ramdani e che accusa Sarkozy di essere stato complice e fomentatore della polizia francese quando s’è macchiata di atti orribili e incivili quali multare chi calpestava l’erba dei giardini del Luxembourg o acciuffare un giovanotto che si era intrufolato in metropolitana senza biglietto. Va bene, questa Ramdani ha gioco facile a dire che il giovanotto è stato reiteratamente menato dalla polizia, ma si lascia sfuggire un dettaglio dirimente: l’articolo riferisce che sembra che il giovanotto sia stato reiteratamente menato come una notizia certa, e fa passare in luogo d’opinione il dato di fatto che il giovanotto non avesse il biglietto.

Direte: tutto questo casino per un biglietto del metrò? Tutto questo casino per 33 euri di multa a chi calpesta le sacre aiuole del Luxembourg? No, tutto questo per dimostrare che mai come questa volta le elezioni francesi hanno spaccato il capello in quattro. Da un lato, infatti, si sono trovati quelli che hanno un’idea indefettibile della legge (ossia: le aiuole non si calpestano; in metrò si fa il biglietto; e così via), e che hanno un ideale di ordine, di pragmatismo, di meritocrazia – per usare le parole stesse di Sarkozy.

E dall’altro lato? Dall’altro lato si sono trovati i sedicenti difensori della democrazia, quelli per cui se un giovanotto senza biglietto nel metrò è nero o beur bisogna lasciarlo andare, o se i poliziotti ti fischiano dietro mentre stai facendo jogging sull’erba del Luxembourg esercitano un’indebita ingerenza e usano violenza ai tuoi illimitati diritti di cittadino progressista. Per costoro, la vittoria di Sarkozy avrebbe significato la fine della democrazia in Francia, l’imposizione di uno stato di polizia, probabilmente l’inizio di uno stato di agitazione permanente nelle periferie. L’articolo di Nabila Ramdani, scritto ventiquattr’ore prima dei risultati, titolava minacciosamente: La ribellione inizierà quando verrà eletto.

Con buona pace della ribelle Ramdani e di tutti quelli come lei, Sarkozy ha vinto e da circa venticinque ore, com’è sotto gli occhi di tutti, la Francia agonizza sotto i colpi di un’atroce dittatura, nella quale a quanto si dice i poliziotti, les flics, sono giunti a sentirsi in diritto di far rimuovere delle automobili parcheggiate in divieto di sosta. Mi chiedo quanto ancora il popolo francese potrà resistere a simili abusi.

No, davvero. Quando ero andato a vedere Il Caimano, oltre a trovarlo un film ben fatto come d’altronde tutti quelli di Nanni Moretti (non un’ombra d’ironia su questa frase, ci tengo a sottolinearlo) mi era piaciuto in particolar modo il finale. Mi era piaciuto narratologicamente, intendo, con gli incendi che divampavano appiccati da una folla plagiata dal potere mediatico del Caimano, e che di fatto tentava di rovesciare con la ribellione la sentenza con la quale la giustizia ordinaria aveva condannato il medesimo (parentesi: in Inghilterra è giunta voce che Berlusconi sia stato assolto nel processo SME; se Nanni Moretti ha tempo sarei felice che mi telefonasse per confermarmi che è vero). Me ne sono ricordato vivamente ieri sera quando Sarkozy, l’uomo pericolosissimo per la democrazia, era stato democraticamente eletto da poche ore e i sostenitori della democrazia caricavano la polizia, bruciavano il tricolore francese, incendiavano motorini. Le fiamme nella notte, fotografate sul sito del Corriere, sembravano le stesse del Caimano; solo che nella circostanza erano contro il Caimano di turno, e quindi erano fiamme giuste, erano motorini immolati in difesa della democrazia, quindi niente da eccepire.

(Fra parentesi, oggi Campanellino che è tanto carina ma è un po’ comunista mi ha fatto notare che, mannaggia a me, dopo il mio Papa preferito sono riuscito a far eleggere anche il mio presidente francese preferito! Dettaglio non da poco, Campanellino ora come ora vive a Parigi e per quanto io sia sicuro che non calpesta l’erba del Luxembourg non ritengo che abbia motivo di rallegrarsi quanto me per i risultati elettorali. Le ho risposto che a quanto pare i miei poteri parapolitici funzionano soltanto sulle elezioni all’estero (Stati Uniti, Francia, Vaticano – per non parlare delle comunali in Inghilterra giovedì scorso, coi Conservatori al 40%), ma non in Italia. Oppure vuol dire che solo e soltanto in Italia le elezioni non vengono ammantate della luce dello Spirito Santo (a differenza di quello che accade in Vaticano, Francia, Inghilterra e ovviamente Stati Uniti), e che quindi l’Italia è - se non ce ne siamo accorti ancora – fuori dalla grazia del Signore. Chiusa la parentesi.)

Purtroppo l’Observer esce una volta a settimana e quindi dovrò aspettare almeno fino a domenica prossima per leggere un articolo in cui la Ramdani o chi per lei spiegherà che i tumulti a Parigi, Marsiglia, Lione, Lille, Nantes e Dio solo sa dove altro sono una sdegnata reazione spontanea all’ennesimo atto provocatorio e prevaricatore compiuto da Sarkozy, il quale ha creduto di poter vincere le elezioni pur essendo manifestamente dalla parte del torto, lui e tutti i poliziotti che vogliono far pagare il biglietto del metrò. Corollario finale vietato ai minori di anni 18: i progressisti, quando hanno un’idea, ritengono che sia necessariamente giusta esattamente come talune signorine, una volta scoperto di avere soltanto una fica, concludono indebitamente di avercela soltanto loro.

sabato 5 maggio 2007

"Do you have the pink italian newspaper?"

Così alle nove meno cinque di ieri mattina ero già al centro di Oxford, che dista un quarto d’ora abbondante da dove abito, a setacciare edicole in cerca dell’edizione del giorno prima del quotidiano rosa e italiano, che non è mica facile a trovarsi come si potrebbe presumere. Il rimpianto di non essere in Italia è stato enorme, al solo pensiero che – a Modena o a Gravina o dovunque – mi sarebbe bastato scendere un piano di scale per farmene sbattere in faccia svariate copie. In nottata avevo dormito poco, ricordandomi di quando al mattino del 10 luglio 2006 mi sono alzato leggermente tardi e non è stato possibile trovare una copia che fosse una della Gazzetta dello Sport. L’edizione storica, il giorno dopo la vittoria del Mondiale.

Che poi in Inghilterra dai giornalai è facile trovare panini, bibite, gelati, spazzolini per i denti, immigrati pakistani, whatever ma un giornale un po’ più complicato degli altri diventa quasi introvabile. Nulla di più facile che comprare il Guardian e sentirsi rispondere: “Vuole anche un Toblerone?”, o “Vuole anche una borsa per il computer portatile?”. Una volta, come ricorderanno i miei lettori più affezionati (se mai ce ne sono), mi era capitato di chiedere a un giornalaio di cambiarmi una banconota in cinque monete e lui mi rispose chiedendomi se volevo anche farmi tagliare i capelli. Dovrei fra l’altro farmi tagliare i capelli, ora che ci penso, ma stamattina ero alla ricerca di giornalai che vendessero la Gazzetta dello Sport di ieri, fatto salvo il giorno di ritardo per farla arrivare a Oxford dall’Italia, e non di un barbiere dilettante.

Il 10 luglio 2006 invece, venendo fedelmente accompagnato da Snupi (che come ricorderanno i miei lettori più affezionati, se mai ce ne sono, non è un bracchetto bensì una mia collega), mi ero spinto alla ricerca dell’italianissimo quotidiano rosa lungo la via Emilia – partendo, per chi ha presente Modena, dall’altezza dell’incrocio con via Roma, cioè la strada che porta al Palazzo Ducale o Accademia – fino ad arrivare oltre l’ospedale, praticamente a piedi fino a Bologna, chiedendo a ogni edicola se avevano il quotidiano rosa e italiano e sentendomi rispondere che l’avevano esaurito prima delle nove, rinfocolando a ogni stazione il mio scoramento.

Così ieri mattina, alle nove meno cinque, ero già alla ricerca delle due o tre copie della Gazzetta dello Sport che vengono sparse, senza alcun criterio alcuno, in giro per Oxford. Già che c’ero, ne ho approfittato per comprare anche il Guardian (poiché non di solo Milan vive l’uomo) e ho scoperto immantinente che – non nella sezione degli avvenimenti internazionali, che è accuratamente nascosta sul fondo, ma a pagina 3, non appena sfogliata la prima pagina – mentre io cercavo un po’ di patria nel quotidiano rosa e italiano, la patria era venuta a trovare me nel quotidiano pallido e inglese.

A pagina 3 del Guardian, dunque, campeggiava una foto enorme di Andrea Rivera e una più piccola del Papa. E chi è? Il Papa è Benedetto XVI ed era Joseph Card. Ratzinger. No, l’altro. Andrea Rivera è Andrea Rivera; io, che come ho scritto nel post precedente non mi perdo una puntata del programma della Dandini per preservarmi dal cader vittima della sua stessa imbecillità, so che esiste e che citofona alle persone facendo domande surreali, come quando si è presentato sotto casa degli elettori (chi più chi meno, siamo elettori tutti quanti) con una torta per festeggiare il primo anno di governo Prodi. Ogni tanto, Andrea Rivera fa ridere; al concerto del Primo Maggio, ha creduto di far ridere; non ha fatto ridere.

Il Guardian ovviamente ritiene che il Vaticano - sentendosi minacciato perché degli anonimi inviano dei proiettili al capo della CEI, perché un guitto sobilla folle di fanciullini cannati con motivi pretestuosi, e perché iniziano ad apparire scritte con minacce di morte al Papa – stia esagerando e ponendo limiti alla libertà d’espressione, insomma le solite fregnacce delle quali, probabilmente perché non mi sono svegliato benissimo stamattina, inizio ad avere pieni i gran coglioni. Ciò nondimeno il Guardian lo compro tutti i giorni, un po’ perché bisogna pur passare il tempo, un po’ perché il Daily Telegraph (che è l’organo stampa conservatore) è troppo largo e a tenerlo aperto mi si stancano le braccia, un po’ perché a vedere la sua enorme foto a pagina 3 del pallido giornale inglese, be’, finalmente Andrea Rivera mi ha fatto ridere assai.

Il 10 luglio 2006, in maglietta azzurra (decorata da enorme riproduzione della coppa del mondo) bermuda blu e sandali marroni, con la scusa di fare colazione ho trascinato Snupi fino a un bar dal quale non si riusciva a vedere la torre Ghirlandina, il che è la controprova pratica che eravamo fuori Modena. Lì abbiamo dichiarato fallita la ricerca e ci siamo seduti, ordinando due cappuccini e altrettanti cornetti. Faceva un caldo cane. Snupi cercava di consolarmi dicendo che in fin dei conti ero riuscito a comprare il Corriere della Sera, il Foglio, il Giornale, Tuttosport e il Corriere dello Sport, e che quindi per quanto storica fosse la giornata potevo con un po’ di sforzo accontentarmi. Pian pianino, nell’aria bollente, ho intravisto qualcosa alle spalle di Snupi. Snupi ha visto la mia faccia cambiare radicalmente espressione e ha creduto essere uscita senza indossare, poniamo, i capelli. Senza dire una parola mi sono alzato e mi sono diretto verso il bancone dei gelati.

Il Guardian, ogni pagina una sorpresa. Nel tentativo di addormentarmi dopo pranzo, ieri ho letto gli editoriali politici e, a pagina 37, viene fuori che un corsivista, Martin Jacques (già direttore di Marxism Today, tanto per dire), commenta le presidenziali francesi dicendosi scandalizzato che gran parte dei governi in carica in Europa preferirebbe una vittoria di Sarkozy a quella della Royal, che Snupi abitualmente definisce “quella gallinella rifatta”, e dichiarando tutta la sua simpatia per José Bové che invece entra coi trattori nelle vetrine dei McDonald’s. Addirittura, argomenta Martin Jacques, “sembra che il parere politico dominante sia che soltanto la destra può risolvere i problemi di una nazione”. Buongiorno. Corre voce che nelle prossime settimane lo stesso Martin Jacques possa scoprire che le biciclette hanno due ruote mentre i tricicli ne hanno tre, e che stia preparando un editoriale sconvolgente per svelare che gli oggetti cadono dall’alto verso il basso e quasi mai dal basso verso l’alto.


Così ieri mattina, alle nove e cinque, me ne tornavo al college rimirandomi la prima pagina della Gazzetta dello Sport del giorno prima ancora, con la foto di Kakà esultante e la scritta GRANDE GRANDE GRANDE. Alla stessa maniera, il 10 luglio 2006, Snupi mi aveva visto tornare al tavolino con in mano una copia spiegazzata dell’edizione storica del quotidiano rosa e italiano, fregata dal bancone dei giornali. Lentamente, ho finto di sfogliarla con profondo interesse. Sottilmente, l’ho infilata nel fascio dei giornali che avevo comprato. Genialmente, ho continuato a sfogliare il Corriere della Sera fingendo di non aver cambiato giornale. Cattolicamente, poiché rubando si va all’inferno ma sostituendo si va in purgatorio, rialzandomi con il fascio di giornali sotto il braccio mi sono confuso e ho lasciato sul tavolino una copia di Tuttosport, e incamminandoci verso il centro di Modena io e Snupi lasciavamo la stessa scia rosa con cui io, e il Milan, abbiamo sommerso Oxford.

giovedì 3 maggio 2007

Diciott'anni non passano invano

La cosa incredibile è che ci credessero davvero. C’era ad esempio un tipo biondo, gracile in maniera preoccupante e ondeggiante a seconda di dove lo portava il suo boccale di birra, che alla fine dell’andata, cinque minuti dopo che Rooney avesse buggerato Dida, stava ancora lì a congratularsi con sé stesso credendo di aver fatto il grosso, anzi, a quel che pareva credendo di aver scalato l’Himalaya col solo aiuto delle unghie.

Io invece la so lunga e ho capito che il Milan si sarebbe qualificato (stavo scrivendo: che ci saremmo qualificati, ma in tempi di trionfalismo è sempre bene tenere un certo distacco) quando Sir Alex Ferguson s’è fatto intervistare tre volte da ITV, una all’inizio, una alla fine e una fra il primo e il secondo tempo della partita d’andata. Sarà che, come mi hanno spiegato, è una tradizione locale e un gesto di educazione e rispetto nei confronti di giornalisti e tifosi, ma come linea di condotta generale io, se sto facendo una cosa importante, evito di fermarmi ogni mezz’ora per spiegare all’universo mondo cosa sto facendo, e come la sto facendo, e perché la sto facendo.

No, anzi: ho capito che ci saremmo, cioè, che il Milan si sarebbe qualificato quando prima ancora che la gara d’andata finisse, anzi, prima ancora che il Manchester United pareggiasse e credesse di aver raddrizzato un destino storto e nodoso, quando un anglico bianco e rosso seduto sul divano dietro al mio s’è lasciato commentare il compiaciuto commento (che traduco): “Ah, mi ricordo quando alla domenica pomeriggio Channel4 trasmetteva la Serie A”, per poi lasciarsi andare a un nostalgico urlo che, se non fossi già stato scosso nell’animo dagli eventi on pitch, mi avrebbe fatto sperare che o il mio o il suo divano sprofondasse: "Gooooolllllaaaaaassssssooooooo!”.

Ora che uno, per quanto inglese, sia convinto che in Italia i cronisti urlino in questa maniera, e che di conseguenza l’Italia e per soprammercato la Francia siano in fin dei conti uguali alla Spagna, al Portogallo e pure al Brasile decisamente non conosce l’avversario; e chi, per presunzione, non conosce l’avversario, necessariamente merita la sconfitta. Alla stessa maniera una settimana intera di dichiarazioni entusiastiche dei sostenitori del Manchester United sui giornali inglesi, alcuni dei quali sono seri, e soprattutto da parte del gracile biondino con la pinta di birra in mano non aveva fatto altro che confermarmi che questi non avevano ancora ben capito contro cosa, e contro chi, stavano per schiantarsi.

Novanta minuti a San Siro sono molto lunghi. Lo sanno bene i tifosi del Milan, soprattutto quando costretti a guardare degli squallidi 0-0 contro squadre indegne nei turni più inutili di campionato. Ma lo sanno meglio ancora gli avversari che il Milan ha via via fatto capitolare nella sua lunga e gloriosa storia europea, talmente lunga e talmente gloriosa che soltanto un interista si azzarderebbe a dire il contrario. Un esempio per tutti è il Real Madrid, che nel maggio 1989 si sentì forte del pareggio (1-1 in casa!) dell’andata e venne a San Siro per fare la mezza partita cosiddetta, sperando nell’episodio rocambolesco che li avrebbe catapultati in finale per l’inerzia del blasone. Risultato? Ancelotti, Gullit, Rijkaard, Van Basten e Donadoni: 5-0.

All’andata il Manchester United ha dimostrato che, quando si tratta di invadere in forze una città nemica, non hanno eguali e alla fine la spuntano comunque; al ritorno il Manchester United ha scoperto che entrare coi carri armati è facile, scendere dai carri armati no. Per il corpo a corpo di ieri sera, che mi aveva reso talmente nervoso da farmi inserire in mattinata un intero paragrafo su Gullit nella mia tesi riguardante Voltaire e la teocrazia ebraica, ho preparato le armi decidendo per il silenzio e il profilo basso. Mica per niente: ero seduto in mezzo a cinquanta inglesi di vario sesso (talvolta indistinguibile) e di varia dimensione. C’era il gracile biondino che, per quanto canna al vento, una pinta vuota poteva tirarmela appresso. C’era Mister Gollasso, che ha urlato molto meno di quanto si aspettasse. E c’ero io, l’unico italiano, l’unico milanista, l’unico a stare seduto in silenzio come se fosse a teatro.

Il profilo basso è finito all’undicesimo del primo tempo: quando abbiamo, cioè, quando Kakà ha segnato io sono scattato in piedi a braccia divaricate e pugni chiusi verso il basso, urlando anzi ruggendo parole che, essendo in Italiano, mi hanno garantito di sopravvivere. Poi mi sono guardato attorno e ho visto cinquanta inglesi, tutti seduti, tutti immobili, tutti zitti in un silenzio carico di rimprovero. Avrei dovuto mormorare delle scuse, poiché in fin dei conti sono ospite, ma poi ho pensato: scusate ’sta minchia, è la legge del più forte.

A poco a poco hanno ripreso coraggio ed ecco che nuovamente io nuovamente mi sono trovato in piedi a vedere Seedorf che raddoppiava e a pronunziare parole delle quali non comprendevo il senso e che probabilmente sono contenute nel libro dell’Apocalissi mentre una lingua di fuoco rossa e nera mi ornava il capo. Al terzo goal, mi usciva il fumo dalle narici e invece di esultare protestavo contro il cronista che per tutto il tempo aveva parlato di Gilardino come Gilardinho, pronunziandolo Gilardigno.Poi la linea è tornata allo studio. Io mi sono accasciato sulla mia poltroncina, stanco morto come se avessi giocato io; la lingua di fuoco si è ritirata, il fumo ha smesso di uscirmi dalle narici e avevo perfino dischiuso i pugni, restando coi segni delle unghie sul palmo delle mani. Gli inglesi, andandosene a poco a poco a meditare sui propri errori e a chiedersi se meglio non fosse non essere mai nati, non hanno potuto accorgersi che in tv la linea tornava allo studio e che, a commentare il dopopartita per sky, ci foss Ruud Gullit. Io me ne sono accorto invece, e ho pensato che – Ancelotti, Gullit, Seedorf, Kakà e Berlusconi – in fin dei conti non è cambiato molto, speriamo.

mercoledì 2 maggio 2007

Il circolo Belsey

(copyright Ore Piccole)

Adesso vi farò ridere.


Con una premessa del genere, posso rinunziare al mio stesso proposito più ancora che se mi fossi presentato a una signorina esordendo: “Adesso la seduco”, o “Adesso ti seduco” se fossi abbastanza coraggioso da dare subito del tu. Eppure se c’è una cosa che in Inghilterra non hanno ancora imparato (né forse impareranno mai) è evitare di tappezzare le locandine dei teatri o le insegne dei ristoranti con una serie infinita di auto-complimenti, che il più delle volte ripetono ovunque le stesse tre parole benché creativamente disposte in ordine differente. Per non parlare delle copertine dei libri; se a uno arriva in mano una copia di On Beauty, l’ultimo romanzo di Zadie Smith (in Italia l’ha tradotto Mondadori come Della Bellezza) non può fare a meno di notare che – di là dal vanto per essere stato incluso fra i finalisti dell’Orange e del Man Booker Prize, e si noti, non per aver vinto, ma per essere stato incluso nei finalisti, vanto pertanto che ha lo stesso peso specifico delle dichiarazioni di Moratti dopo gli scudetti dell’Inter – dicevo, non si può fare a meno di notare che la copertina, ossia l’oggetto/libro, in ogni centimetro quadrato che sarebbe meglio aver lasciato vuoto non fa altro che ripetere quanto il libro stesso, cioè il contenuto, sia divertente. Il libro è “wonderfully funny” nella recensione dell’Observer citata in prima di copertina, “entertaining” in quella del New York Times, “fun, entertaining and beautiful” in quella (nientedimeno) che dello Scotland on Sunday e soprattutto – poiché mancava spazio per le recensioni di Gone Fishing!, di The Presbyterian Royalist ed eventualmente di Zoo, il settimanale delle donne nude a portata di mano – “very funny indeed” nella conclusione scelta dal triste compilatore per il (lungo) riassunto in quarta di copertina, così da fugare ogni possibile dubbio.




La patina di scetticismo, tuttavia, sul volto di Zadie Smith nella fotina che affianca la sua sintetica biografia avrebbe dovuto fungere da deterrente. Benché la copertina presupponga che il lettore dovesse iniziare a sorridere nel momento in cui gli giunge notizia che Zadie Smith ha pubblicato un nuovo romanzo, e che dovesse recarsi tutto contento in libreria e cercarlo ridacchiando fra gli scaffali, pagare sghignazzando alla cassa e rotolarsi incontinente sul pullman che lo riporta a casa - benché la casa editrice Hamish Hamilton (dell’impero Penguin) presupponga tutto questo, On Beauty non fa ridere. Fa alzare qualche sopracciglio, fa guardarsi intorno sottilmente compiaciuti, fa passare un po’ d’aria fra le froge e talvolta sollevare uno dei due angoli della bocca, ma per buona parte del tempo fa venir voglia di fare altro e, soprattutto, fa rimpiangere di aver prestato fede alla copertina e di essersi seduti pieni di aspettative. Se non fosse stato un libro tanto divertente, avrebbe fatto ridere di più.




Fra i vari motivi per cui On Beauty non fa ridere, uno dei principali è Evelyn Waugh, o P.G. Wodehouse o Tom Sharpe o qualsiasi altro umorista inglese ci abbia abituati troppo bene. Costoro hanno creato un sistema umoristico perfettamente conchiuso che è particolarmente difficile riuscire a scardinare, a meno di essere un genio comico. Raggelante quantunque, l’humour inglese vive su una serie di leggi intrinseche la cui possibile deroga fa venire in mente la reazione – questa sì, raggelante – della regina Vittoria: “We are not amused”, non siamo divertiti.




Fra i vari motivi – bis – per cui On Beauty non fa ridere, il più credibile è David Lodge, sdentato ex professore che ha portato la satira dell’ambiente accademico a un livello potenzialmente superabile soltanto da un eventuale prossimo romanzo di David Lodge. Quando Zadie Smith ha scelto l’argomento del suo romanzo, avrebbe dovuto pensarci due volte prima di dare vita alla saga di Howard Belsey, un professore d’arte inglese che insegna in America e, insieme alla sua famiglia, incarna il perfetto progressista postmoderno, contrapposto a Monty Kipps, uno studioso del Trinidad che insegna in Inghilterra e, soprattutto, è ultraconservatore, teocon, cristiano – insomma, costituirebbe il peggior incubo di Fabio Fazio. Per sommi capi, la stessa storia viene raccontata da Lodge in Scambi, che è di trent’anni fa ma che forse qualche sconsiderato non ha ancora letto. Io l’ho letto (su un volo Alitalia il 4 novembre 2005, guai a chi osa dire il contrario) e, per quanto tentassi scientemente di trattenermi, a ogni apporto personale di Zadie Smith mi sorprendevo a rimpiangere di non star leggendo David Lodge. Avrebbe dovuto pensarci ventidue volte, duecentoventidue, duemiladuecentoventidue.




L’intento di Zadie Smith è quello di fornire una satira ancipite di entrambi gli ambienti (progressista e conservatore), e questo è il terzo motivo per cui non fa ridere. Vuole mettere in ridicolo sia la “perversa politica dell’iconoclasmo destrorso” (p.29) sia demolire le convinzioni di plastica del più ritrito progressismo atlantico. Non ci riesce. Ho l’impressione che, se avesse scelto fra uno dei due partiti, il romanzo sarebbe stato più sanguigno e ne avrebbe guadagnato il lettore, di qualsiasi colore fosse, che si sarebbe divertito di più. La rapida alternanza di colpi al cerchio e alla botte, invece, crea un equilibrio troppo fragile e può divertire solo, tanto per farvi un’idea, il recensore dello Scotland on Sunday (ma non quello di Zoo, il settimanale delle nudità incalzanti, il quale presumiamo abbia più sane e soddisfacenti ragioni di divertimento). C’è poca convinzione, ad esempio, nella voce della figlia di Kipps quando Zadie Smith le fa dire che “stare sempre sulle tracce dei liberali fa imparare a non diventare altrettanto stupidi”; per quanto sia esattamente la ragione per cui non mi perdo una puntata della Dandini, l’effetto narrativo è lo stesso di un ventriloquo sorpreso a muovere le labbra e guardato con disappunto dal proprio stesso pupazzo.




A mio immodesto avviso, c’è una ragione specifica di carattere generale. Non avendo letto gli altri due romanzi di Zadie Smith (Denti Bianchi e L’Uomo Autografo, immancabilmente recensiti come superbamente divertenti nella terza di copertina) nutro una speranza e un sospetto. La speranza è che le sue opere precedenti siano meglio, e che On Beauty sia magari un inciampo dovuto alla fretta di rispettare un contratto. Il sospetto è orrendo.




Il sospetto è che possa esistere una sola persona il cui mestiere consiste nello scrivere tutti i romanzi di Zadie Smith, di Dave Eggers, di Jonathan Safran Foer, di sua moglie Nicole Krauss – e, non fosse per la diversa lingua, aggiungerei a quest’elenco teoricamente infinito anche qualche scrittore fortunatamente lasciato in Italia. A leggerli tutti uno dietro l’altro, ci si rende conto che ovviamente cambiano i temi, i toni, le armonie, ma il ritmo sembra restare sempre lo stesso e, una volta chiuso il libro, resta in testa come un’ossessione irrazionale. Poiché tuttavia persisto nel farmi persuaso che questo signore, quest’autore universale, in realtà non esiste ma è un parto della mie mente, ho dovuto costruirmi una teoria scientifica che non c’entra più niente col romanzo di Zadie Smith ma, una volta che sto scrivendo, la scrivo.




Un mesetto fa un importante editor inglese lamentava sull’Observer come il livello dei manoscritti che gli arrivano da leggere sia notevolmente incrementato. Non diminuito, eh – aumentato: la gente scrive meglio e i meravigliosi romanzi scritti senza alcun rispetto per le regole della grammatica, della narrativa e del buon senso e ciò nondimeno ritenuti (dall’autore e da alcuni amici conniventi) meritevoli di pubblicazione ormai stanno diventando merce rara, quasi pregiata. L’editor medesima postulava che la colpa di quest’innalzamento del livello fosse da ascriversi ai corsi di scrittura, dai quali chiunque, fosse una capra o fosse Flaubert, uscirebbe con in saccoccia qualche nozione in più e molta ingenuità/freschezza/novità in meno. L’editor lamentava che alle volte non riesce più a distinguere quali romanzi ha già letto e quali ancora no, perché sia un ventenne di Sunderland sia una cinquantenne di Mayfair parlano con la stessa voce e cadono vittime dell’estremo paradosso, la clonazione delle anime; e chiunque, pur di diventare uno scrittore famoso, sta rinunziando alla possibilità di essere riconosciuto.


On Beauty ho finito di leggerlo ieri. Oggi c’è il sole e, poiché sono da tempo raffreddato come un ussaro sul tetto, ho definitivamente tentato di porre fine alle mie sofferenze sedendomi in giardino a leggere The Pickwick Papers, ossia Il Circolo Pickwick. Sulla copertina non c’è scritto che è divertente (o è scritto al massimo una volta sola) ma le cinquanta pagine su settecento che ho letto finora sono state accompagnate da distinte risate – non ammicchi, non brontolii, non guaiti, ma risate autentiche – che mi hanno guadagnato l’incondizionata simpatia degli inglesi i quali, com’è noto, sono tutti matti, a cominciare da Dickens, quindi se vogliamo divertirci ripartiamo da lì.