sabato 31 dicembre 2011


Quest’anno non ho letto tantissimo: 138 libri cominciando con Casa d’Altri di Silvio d’Arzo e finendo con Per chi suona la campana di Ernest Hemingway, tuttora in corso di lettura. In compenso ho letto molto meglio del solito, visto che solo in tre casi ho avuto la netta impressione di star perdendo del tempo: con Help my unbelief: James Joyce and Religion di Geert Lernout, un saggio in cui si cercava di provare che un’intuizione paradossale dell’autore fosse preconizzata da citazioni a caso dal povero incolpevole Joyce; con la Vita di Niccolò Tommaseo di Raffaele Ciampini, che almeno è un testo ormai desueto e ormai può essere rimosso in fretta; e con Uomini e cani di Omar Di Monopoli, il peggio del peggio, roba da chiedere indietro i soldi se l’editore non fosse il più che stimabile Isbn.

S’è verificato un cambiamento notevole: a un certo punto dell’anno ho capito che a mente non potevo ricordare tutto e, dopo dodici anni di letture onnivore, ho iniziato a utilizzare più o meno creativamente la matita sui margini dei volumi. Gli autori che hanno caratterizzato l’anno con letture plurime si sono assestati su cifre basse: Papini (4 libri), Philip Roth (5, di cui una rilettura), Tommaseo (6) e soprattutto Hemingway (altrettanti) il quale costituiva un’imbarazzante lacuna nel mio panorama culturale; per questo ho deciso di dedicargli le ultime settimane dell’anno partendo da Festa mobile a metà dicembre. In fin dei conti abbiamo entrambi un debole per Parigi e per la corrida, ma le cose in comune finiscono qua. Anche le riletture sono state pochine, anzi quattro: Lo scrittore fantasma di Philip Roth, riletto per segnare a matita le macrostrutture narrative e per evidenziare gli indizi che preconizzavano lo sviluppo della trama; Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo, riletto perché è il romanzo più meraviglioso del nostro Ottocento e perché dovevo scrivere un articolone sull’autore; Erewhon di Samuel Butler, riletto su un’edizione diversa dalla mia, prestigiosissima trattandosi di una Penguin del 1936, ma che avevo dimenticato in Italia così da essere costretto a prenderne una a caso dalle biblioteche di Oxford; Dio di Levante di Raffaele Nigro, riletto perché nonostante sia stato sottovalutato all’epoca della prima pubblicazione con Mondadori è stato doverosamente ripubblicato, in miglior forma estetica, dalla temeraria editrice Hacca.

Volendo ragionare per settori, posso imbastire tre podi specifici. Per la narrativa prodotta da un italiano vivente, con preoccupante monotematicità metterei al terzo posto Autobiografia erotica di Aristide Gambìa di Domenico Starnone, al secondo Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) di Aldo Busi e al primo Canti del caos di Antonio Moresco. Per la narrativa prodotta da uno straniero vivente non ho nemmeno bisogno di un podio completo in quanto ultimamente ne leggo poca: dunque al secondo posto Tutte le anime di Javier Marías, non tanto perché sia il suo miglior romanzo quanto perché con un certo sollievo ho voluto concedermelo dopo essere sopravvissuto a Oxford, così che su di me esercitasse un maggior riverbero di quanto previsto dall’autore per il lettore medio; e al primo, pressoché senza rivali, History of a pleasure seeker di Richard Mason, letto nell’originale appena era uscito, nel corso di un tranquillo fine settimana di giugno a Cambridge. È il romanzo in cui Mason mantiene tutto quello che aveva promesso dal suo esordio e tanto basta a renderlo unico; mi auguro che la traduzione Einaudi sappia rendergli giustizia. Quanto ai saggi, senza distinzione di ordine e grado, direi che al terzo posto si piazza Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola, per giustezza di vedute e architettura nell’esporle; al secondo un gran classico quale Machiavelli in Hell di Sebastian de Grazia; al primo un classicissimo pressoché immortale, letto con colpevole ritardo, ossia The Italians di Luigi Barzini.

Non ribadirò mai abbastanza che quando azzardo graduatorie fra i vari libri non mi riferisco al loro valore oggettivo, anche perché sarebbe infingardo paragonare libri usciti avantieri e testi scritti da Dante o Pirandello; mi affido esclusivamente al grado di piacere che ho provato leggendoli, il quale essendo contingente può variare anche in base a fattori non ponderabili. Il saggio della Mastrocola, ad esempio, ho impiegato più di due settimane a finirlo perché è capitato in un periodo in cui pativo male fisico irreprimibile dovuto alla sovraesposizione a Oxford e il medico mi aveva proibito di affaticarmi occhi e cervello (e anche se avessi voluto, mi bastava aprire un qualsiasi libro per avere la tremarella). In condizioni normali, oltre a leggerlo in tempi più ragionevoli, l’avrei magari gradito ancora di più. Premesso questo, passiamo al torneo egotistico che sancisce la più dilettevole lettura dell’anno. Per ricapitolare, nel 2006 aveva vinto Espiazione di Ian McEwan, nel 2007 La vita agra di Bianciardi, nel 2008 Infinite Jest di David Foster Wallace, nel 2009 Aprire il fuoco nuovamente di Bianciardi e l’anno scorso il sullodato Fede e bellezza.

Stavolta mi voglio rovinare e per rendere più emozionante il giochetto non presenterò una lista dei tot libri migliori dell’anno ma ne indicherò crudelmente uno per mese. In gennaio, su 13 concorrenti, scelgo Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi; in febbraio, su 10, The Italians di Barzini; in marzo, su 17, il Diario intimo di Tommaseo; in aprile, su 14, Libera Nos a Malo di Luigi Meneghello; in maggio, su 7 e basta (era il periodo in cui ero verdino), The way of all flesh di Samuel Butler; in giugno, su 10, History of a pleasure seeker di Mason; in luglio, su 11, Cazzi e canguri di Busi; in agosto, su 15, La luna e sei soldi di William Somerset Maugham; in settembre, su 10, Tutte le anime di Marías; in ottobre, su 11, l’Autobiografia erotica di Aristide Gambia di Starnone; in novembre, su 7 (eppure avevo un bel colorito roseo), La famiglia Winshaw di Jonathan Coe; in dicembre, su 12, i Canti del caos di Moresco.

Ora vengono i guai: bisogna dividere il tutto per trimestri e sceglierne uno per stagione. Il libro dell’inverno è The Italians: Barzini sconfigge Pennacchi e Tommaseo perché primeggia nella visione d’insieme che né un romanzo né un diario occasionale riescono a pareggiare, e ciò nondimeno conserva una qualità di prosa (inglese) e una lust zu fabulieren fuori dal comune. Il libro della primavera è History of a pleasure seeker: Mason non sconfigge Menghello e Butler; in realtà pareggiano e vanno ai supplementari, fors’anche ai rigori a oltranza, ma trovandomi con le spalle al muro e dovendo scegliere privilegio il più giovane in quanto lottare alla pari coi fantasmi del passato è un obiettivo fuori portata per molti viventi, quasi tutti a dire il vero. Il libro dell’estate è La luna e sei soldi: Maugham, rispetto a Busi e Marías, mi dà l’impressione di una più solida architettura narrativa sulla quale far volteggiare il bello stile; e la trama, che sarà pure una volgarità da giornalisti ma alla lunga conta abbastanza, è la più rimarchevole del lotto. Il libro dell’autunno è Canti del caos: come Coe e Starnone Moresco coltiva un progetto ambizioso ma, avendo la possibilità di far trascorrere dieci anni e tre editori dalla prima edizione del libro a quella definitiva, è riuscito a spingere l’ambizione ai confini con l’eroismo.

E adesso le semifinali. Fra Barzini e Mason il libro del semestre boreale è, direi, The Italians: sono incomparabili ma, a parità di lingua, vince quello che non la parla dalla nascita. Fra Maugham e Moresco il libro del semestre australe è Canti del caos: non c’è paragone in termini di vastità, coraggio e malleabilità della lingua. Finalissima. Lo dico subito, meglio Moresco; che è riuscito a conseguire la visione complessiva necessaria a un autore che voglia scrivere un saggio ma utilizzandola per un romanzo e mantenendola per mille pagine e più. Mica è vero che le dimensioni non contano.

venerdì 30 dicembre 2011

Nel tragico panorama occidentale dell'anno morente si sono distinte in positivo due nazioni: non sono le ridarole Germania e Francia bensì Spagna e Gran Bretagna. Quest'ultima aveva galleggiato a vista per undici mesi, finendo sovente sotto il pelo d'acqua come in occasione dei moti estivi, prevedibilissimi per chiunque avesse trascorso più di una settimana in Inghilterra di modo tale da apprendere che è una nazione in larga parte composta da teppistelli decerebrati. La Gran Bretagna ha saputo rovesciare le sorti il 9 dicembre, quando si è ricordata di essere una nazione speciale e David Cameron con un giro di parole ha fatto capire a Sarkozy e alla Merkel dove avrebbero potuto infilarsi, una a una, le dodici stelle del vessillo europeo (la scena ricordava un poco la conferenza stampa del patriottico premier Hugh Grant in Love, Actually; ognuno ha i suoi modelli di riferimento).

La Spagna ha fatto di meglio. Precipitata in una crisi che poteva renderla anello mancante fra Italia e Grecia, ha sapientemente gestito il passaggio di poteri fra ex maggioranza ed ex opposizione, comprensivo di nobili dimissioni del primo ministro e campagna elettorale secca ma corretta. Il capolavoro è stato l'ultimo discorso del vecchio governatore, in cui l'uscente Zapatero ha concordato col subentrante Rajoy le parole da utilizzarsi per parlare a nome della Spagna e non del partito socialista o popolare.

Spagna e Gran Bretagna sono nazioni e hanno potuto dimostrare di esserlo in quanto monarchie. Dietro i governatori che si avvicendano resta il sostegno costante di un sovrano che pur nell'inevitabile succedersi di morti e incoronazioni resta idealmente lo stesso perché cessa di essere individuo per farsi uomo nazionale. Questo non è possibile in Francia, dove il Presidente della Repubblica deve curarsi del ritorno elettorale per sé, se è al primo mandato, o per il proprio partito, se è al secondo. Non è possibile in Germania, dove il Presidente della Repubblica è sostanzialmente inutile, tradizionalmente inetto, completamente oscurato dall'ombra del cancelliere e non di rado facilmente rovesciabile con uno scandaletto. Tanto meno sarebbe possibile in Italia, dove il Presidente della Repubblica è un uomo di partito, scelto dopo estenuanti trattative fra capipartito, e  chiamato a dirigere l'infinita quadriglia dei partiti: per quanto correttamente e istituzionalmente possa comportarsi, salterà sempre fuori qualcuno che lo taccerà di parziale e traditore degli interessi nazionali, ora a torto ora a ragione.

In Gran Bretagna risultati e programmi del governo, quale che sia, vengono solennemente esposti nel Discorso del Re (oggi Regina) davanti ai leader di maggioranza e opposizione con tutti i parlamentari alle loro spalle. La voce è del sovrano, le parole sono del governatore e le due cose diventano inscindibili. Ve lo vedete Napolitano o chi per lui a leggere i programmi di Berlusconi o chi per lui? In Spagna ci fu sensazione quando, per difendere Zapatero che pure non amava e del quale presumibilmente non trovava condivisibili le politiche, il cattolicissimo Re Juan Carlos urlò a Hugo Chavez: "Porqué no te calles?", "Perché non ti stai zitto?"; poi prese e se ne andò. In quel momento uscì di fatto dalla stanza tutta la Spagna, mica una persona sola. Ve lo vedete Napolitano o chi per lui che interviene a gamba tesa in un vertice internazionale per difendere Berlusconi o chi per lui? E se anche se ne uscisse dalla stanza, con lui non uscirebbe tutta l'Italia ma sempre una metà quando non un terzo o un quinto.

Giuliano Amato ha rivelato che le celebrazioni per il 150° anniversario dell'unificazione proseguiranno anche nel 2012, a riprova che in Italia perfino le date sono malleabili. Speriamo che il tempo porti consiglio e che festeggiando festeggiando ci si sovvenga di alcuni particolari dimenticati quest'anno:
- nel 1861 venne costituito il Regno d'Italia e, a parte quattro mazziniani, nessuno si sarebbe fatto trafiggere per costituire la Repubblica Italiana;
- a molti patrioti del XIX secolo premeva più l'indipendenza che l'unità della nazione, e nessuno di loro si sarebbe fatto trafiggere per mantenere insieme l'Italia, privarla di valuta propria e consegnarla una e indivisibile a un'entità sovranazionale che la governasse un po' da Strasburgo, un po' da Bruxelles e un po' da Francoforte.

giovedì 29 dicembre 2011

I coreani sono di per sé ridicoli: hanno buffi connotati indistinguibili, movenze bislacche e per nome dei trisillabi onomatopeici. Benedetto più di me dal dono della sintesi, un osservatore della Nazionale di calcio ai Mondiali del '66 riportò le proprie impressioni sulla Corea del Nord definendola "squadra di Ridolini" (poi andò come andò: l'Italia perse 0-1 con rete di Pak-Doo-Ik, forse ufficiale dell'esercito forse dentista, e i coreani vennero strapazzati dal governo al rimpatrio perché il Portogallo li aveva rimontati ai quarti di finale). I coreani fanno ridere soprattutto quando si prendono sul serio e non c'è dubbio che la scena sommamente mesta del funerale di Kim-Jong-Il muova più di ogni altra alla risata isterica. Bisogna andarci piano però col deridere il dolore di massa, manifestatosi nella circostanza in infinite scene di miliziani o anonimi civili (beninteso tutti uguali) che a stento venivano contenuti mentre, lacrimando forte, tentavano di gettarsi sopra o magari sotto il convoglio funebre. Nella migliore delle ipotesi sono cretini, abbiamo pensato; nella peggiore, e più verosimile, sono costretti a esprimere ciò che non provano. Per noi Kim-Jong-Il, con lo sguardo fisso da anni e l'ottuso apparato in costume che abitualmente lo circondava, era facilmente identificabile col male che non era solo un male etico ma anche un male estetico; peggio, un male spropositatamente e mostruosamente ridicolo, un despota più scemo che pazzo dalla cui falange dipendeva il lancio di non so quanti ordigni letali. Ma i coreani non sanno di essere ridicoli e parimenti non potevano concepire l'assurdità del Caro Leader, del polputo erede e dell'apparato carnevalesco. Per loro Kim-Jong-Il era l'immagine rasserenante che occhieggiava da ogni muro, il protettore da un mondo ostile e sconosciuto. Il Caro Leader era tutto; era il mondo che moriva e le lacrime erano vere.

martedì 27 dicembre 2011

Non so se il nuovo inserto culturale del Corriere della Sera abbia una versione elettronica per tavoletta o superfonino. Spero di no. Se ce l'avesse, ci si sarebbe persi un paio di graffianti ironie (volute o meno) nell'impaginazione de La Lettura #7, di domenica scorsa. L'intera pagina 12 era stata acquistata dalla Mondadori per celebrare "le suggestioni della natura, le vibrazioni dell'anima, il mondo di Mauro Corona"; l'irsutissimo volto del'autore appariva da una sfumatura del nero che faceva da sfondo alle copertine dei suoi libri, disposte in dimensione crescente fino a giungere all'ultimissimo e nuovo il cui lancio era: "La ferocia delle montagne. La dolcezza di un amore impossibile". Bene. Se non che sulla gemella pagina 13 campeggiava il titolo "I furbetti della narrativa" e si poteva leggere la seguente dichiarazione di Massimo Onofri: "Penso a uno come Mauro Corona, dove l'ombra del personaggio si proietta sull'autore, per cui piace per ciò che scrive, ma anche perché è un po' boscaiolo". Onofri argomenta che in casi del genere più che di "furbizia" bisognerebbe parlare di "mistificazione" editoriale. Ecco una bella pagina pubblicitaria sprecata, povera Mondadori; o almeno lo sarebbe, se buona parte degli italiani prendesse in mano gli inserti culturali per leggerli anziché per guardare le figure. Seguitiamo. A pagina 16 si riferisce che nel 1996 Mario Vargas Llosa firmò la prefazione di "uno sciocchezzaio della sinistra filocastrista" che si intitolava Manual del perfecto idiota latinoamericano. A pie' della stessa pagina la recidiva Mondadori ha piazzato una multicolore propaganda del nuovo libro di Federico Rampini: titolo, "Alla mia Sinistra"; lancio, "Lettera aperta a tutti quelli che vogliono sognare insieme a me". Non so se sia perfecto ma, a giudicare dall'espressione dell'autore in foto, parrebbe sulla buona strada.

sabato 24 dicembre 2011

Se siete arrivati in affanno alla Vigilia, sul Foglio di oggi consiglio un libro da regalare in extremis e ventinove da evitare assolutamente, soprattutto perché non sono ancora stati pubblicati.

venerdì 23 dicembre 2011

Ricapitoliamo. Nel 1992 Giuliano Amato si infilò una calzamaglia in testa ed esercitò un prelievo notturno sui nostri conti correnti. Era un piccolo sacrificio, si disse, per reggere il passo dell'Unione Europea che ci avrebbe garantito un futuro di prosperità e agiatezza. Negli ultimi giorni del 1996 Romano Prodi si infilò una calzamaglia in testa e ci richiese un contributo straordinario per l'Europa, la famigerata eurotassa. Era un piccolo sacrificio, si disse, per poter reggere il passo dell'Unione Europea che ci avrebbe garantito un futuro di prosperità e agiatezza. Nei primi mesi del 2002 tutti i commercianti si sono infilati una calzamaglia in testa e cambiando i cartellini dei prezzi sulle vetrine equipararono il potere d'acquisto di una moneta da un euro a quello di una banconota da mille lire. L'elevatissimo tasso di cambio lira/euro sancito anni prima da Prodi e Ciampi era, si disse, un piccolo sacrificio per reggere il passo dell'Unione Europea che ci avrebbe garantito un futuro di prosperità e agiatezza. Negli ultimi giorni del 2011 Mario Monti, senza poter nemmeno permettersi una calzamaglia da infilarsi in testa, ha scoperto la via maestra per il risnanamento: una tassazione progressiva dei conti correnti dei cittadini. Si tratta  anche in questo caso di un piccolo sacrificio per reggere il famoso passo. Non so voi ma io sono disposto a rinunciare a tutta l'agiatezza e la prosperità che ci garantirà in futuro l'Unione Europea se ci restituiscono tutti i soldi che abbiamo perso nei vent'anni in cui abbiamo cessato di essere una nazione indipendente.

mercoledì 21 dicembre 2011

Tra i controcanti alla mitologia della sobrietà non c'è solo il Don Giovanni di Robert Carsen, che ha scosso la prima alla scala facendo assolvere anziché sprofondare il dissoluto protagonista. C'è anche Silvio Orlando che porta in giro per l'Italia la riduzione teatrale de Il Nipote di Rameau, forse la più antifilosofica fra le opere di Diderot. 

Ne parlo sul Foglio in edicola oggi.

lunedì 19 dicembre 2011

Una bella notizia: sabato scorso David Cameron ha celebrato a Oxford il quattrocentesimo della Bibbia di Re Giacomo rivendicando - di là dalla pratica individuale - la peculiarità della politica britannica dovuta al costante perseguimento nei secoli di un ideale cristiano e, per l'appunto, biblico. Cameron parlava chiaramente ispirato dal mio paginone uscito sul Foglio del mercoledì precedente, che la redazione ha intitolato "Molta Bibbia, siamo inglesi", e nel quale sviluppavo lo stesso identico concetto su suggerimento dell'ottima Nicoletta Tiliacos. I motivi di soddisfazione sono due: non solo il Foglio dà le notizie prima che gli avvenimenti accadano mentre gli altri giornali le danno dopo; ma soprattutto è bello sapere che i due anni e mezzo che ho trascorso a Oxford non sono passati invano e che gli inglesi hanno saputo trarne qualche giovamento.

domenica 18 dicembre 2011

Ieri pomeriggio, invece di progettare di scrivere queste parole, avrei dovuto essere a Modena per incrociare a sorpresa Michela Murgia che  presentava il suo volume alla biblioteca Delfini, e per fare inoltre le solite cose che d'abitudine si fanno a Modena, a cominciare dal sostituire i pasti con gli aperitivi. Avevo intenzione di andare e tornare in giornata (essendo necessario che trascorressi questa domenica a Pavia) prendendo il treno delle 9:04 e rientrando con quello delle 20:25. Non l'ho fatto. Un impegno che si era protratto fin quasi a mezzanotte al venerdì sera mi aveva costretto a svegliarmi al mattino dopo intorno alle 9:10, ciò che rendeva ardimentoso acciuffare il treno delle 9:04, foss'anche in pigiama. Un ulteriore possibile treno mi attendeva alle 13:02 ma più passavo la mattinata sbrigando commissioni meno mi attraeva l'idea di trascorrere in treno due ore e mezza, arrivare a Modena alle 15:32, rimanerci per quattro ore e cinquantatré minuti, ripartire alle 20:25, trascorrere in treno altre due ore e mezza, arrivare a Pavia alle 22:56 e strisciare verso il mio letto con mezzo fine settimana già alle spalle e la domenica rovinata a priori dalla sveglia del lunedì.

Tutto ciò non meriterebbe di essere riferito se qualche anno fa, diciamo tre, una giornata del genere non fosse solamente stata alla mia portata ma non mi avesse addirittura riempito di entusiasmo e sollievo. Erano tempi in cui non mi pesava alzarmi alle sei della domenica mattina per incontrare la fidanzata a Verona alle dieci e indi ritornare a Pavia in tempo per la pizza vespertina con posticipo sulla pay-tv. Oggi mi basta leggere "Verona" su una carta geografica perché mi assalgano spossatezza e disfattismo. Erano tempi in cui la sera dell'8 dicembre decidevo al volo che l'indomani sarei andato a trascorrere il compleanno a Modena e quando tornavo, la sera dopo, invece di un anno in più me ne sentivo tre in meno.

Quest'anno invece non sono riuscito a spostarmi più in là di piazza Vittoria, per il mio compleanno, trascorrendolo inevitabilmente a calcolare quante persone se ne dimenticavano via via: rispetto a quando avevo, che so, otto o nove anni la percentuale è in continuo calo; un po' come l'editoria, che  stata in crisi dal momento in cui Gutenberg licenziò la prima Bibbia.

Quest'anno per la prima volta le ex fidanzate che hanno dimenticato il mio compleanno sono state più di quelle che se ne sono ricordate; ma è endemico, più passa il tempo più le ex fidanzate aumentano (o, più scientificamente: le fidanzate passano, i compleanni restano; finché non arriva un giorno in cui i compleanni cessano e le fidanzate diventano in qualche modo mezze vedove). Di per sé non mi ha tanto preoccupato questo quanto l'impreveduto effetto di un trucco autolesionista che andavo escogitando da tempo. Quatto quatto, il 7 dicembre ho imposto a facebook di non mostrare più pubblicamente la mia data di nascita; ciò di conseguenza blocca il programmino che segnala a tutti i tuoi contatti quando arriva il tuo compleanno. E' stata una carneficina, non credevo tanto: c'è chi se n'è ricordato un giorno dopo, chi se n'è ricordato due giorni dopo perché gliel'aveva ricordato chi se n'era ricordato un giorno dopo, chi se n'è ricordato una settimana dopo, chi mi adora e non se n'è ricordato affatto, chi dice di adorarmi e se n'è ricordato ancor meno; c'è anche chi mi ha chiamato al mattino del giorno giusto per scusarsi credendo che la ricorrenza cadesse il giorno prima. Vi risparmio altri dettagli più cruenti.

Il punto non è calcolare col bilancino chi ci tenga a me e quanto (non è il caso; scrivo molto vicino a una finestra e, in caso di necessità, potrei rompere il vetro per uscire) ma notare quanta parte del nostro cervello è stata divorata da facebook, tanto che se esso non ci ricorda del compleanno di un amico allora detto compleanno non esiste più. Fa bene Obama a proibire facebook alle proprie figlie; è la prima cosa sensata che fa da quando è stato eletto. E' il Presidente degli Stati Uniti nonché Commander in Chief e può permettersi di impartire ordini. Voi che (presumo) non siete presidenti di una mazza, nel vostro piccolo potreste approfittare del Natale per regalare a ogni amico un'agendina dopo averci evidenziato la data che vi preme.

Dunque non solo la gente si dimentica; non solo invecchio tanto che non mi riesce più di pensare di andare a Modena in giornata senza che mi colga un preventivo attacco d'artrosi; non solo dai trentuno ai quaranta è tutta discesa e dopo i quaranta c'è solo la morte, anzi le tasse e la morte. Per giunta il 10 dicembre vado a comprare il giornale e l'edicolante che mi serve (una bella signora snella che potrebbe anche permettersi di non indossare il berretto da Babbo Natale quand'è in servizio sotto le feste), al mio ennesimo "mi scusi" o "la ringrazio", sbotta: "Ma mi dai ancora del lei? Dammi del tu ché siamo coscritti". Poi commette l'errore fatale di domandarmi: "Te di che anno sei?"; e prima ancora che io finisca di risponderle "Millenovecentottanta" lei ha già dichiarato: "Io del Sessantasei", rendendosene conto quando è troppo tardi.
Si è accorto qualcuno che a Firenze un folle ha preso un'arma da fuoco, ha sparato a dei senegalesi e si è levata l'indignazione generale, con mille cortei solidali per dimostrare che l'Italia non è un paese razzista nonostante le teorie fomentate dal comportamento di certi partiti? Si è accorto qualcuno che a Firenze un folle ha preso un'arma da fuoco, ha tentato di sparare al Vescovo e non s'è levata alcuna indignazione generale, senza nessun corteo solidale per dimostrare che l'Italia non è un paese anticlericale nonostante le teorie fomentate dal comportamento di certi partiti?

venerdì 16 dicembre 2011

Ho sempre qualche difficoltà a spiegare che mestiere faccio. (A spiegarlo, non a capirlo). Sostenere che sono un filosofo è menzogna pura in quanto la mia attività preferita non è pensare bensì masticare. Potrei dire che sono uno storico della filosofia, ma questo non spiegherebbe allora perché per due anni e mezzo  ho lavorato in una facoltà di lingue e letterature straniere - non sia mai che s'insospettiscono e mi chiedono indietro gli emolumenti. Non sono un letterato perché non ho la laurea in lettere (a interpretare il termine secondo la vulgata burocratica) né ho ancora scritto nulla che resterà eternato nei manuali di letteratura (a interpretarlo secondo la vulgata del senso comune). Qualcuno può suggerire di regolarmi in base al massimo titolo di studio conseguito; se non che il mio dottorato risulta in scienze della cultura e io non sono né scienziato né culturista. Sono uno storico delle idee? Non direi, o quanto meno preferirei di no visto che la definizione mi fa piuttosto venire in mente qualcuno impegnato a mettere in fila le lampadine che via via si accendono sulla testa dei passanti. Non è bello. Forse, molto forse, potrei definirmi storico del testo. Non ha molto senso ma suona bene e costituisce effettivamente il mio diuturno battonaggio, da Voltaire al Foglio: prendo le parole di qualcuno, le mastico (appunto), le digerisco e le rivendo in un contesto differente che le illumini di più.

Che ci crediate o no, questa è la necessaria premessa all'anticipo di questa settimana per Quasi Rete, che è Fiorentina-Atalanta 0-1 del 1993.

giovedì 15 dicembre 2011

Mario Monti, sono lo spirito del Natale passato.


Su Tempi in edicola questa settimana spiego il 2010, il 2011 e il 2012 con la favola dickensiana di un sobrio canto di Natale.

mercoledì 14 dicembre 2011

Gli intricati avvenimenti diplomatici degli scorsi giorni hanno dimostrato una volta di più che la principale difficoltà nel comprendere la politica britannica sta in un fraintendimento di fondo: gli europei continuano a interpretare il Regno Unito utilizzando una griglia di canoni principalmente continentali mentre il Regno Unito si percepisce come l'ultima espressione di un'evoluzione coerente nei secoli senza paragoni nel resto d'Europa. Per gli inglesi la Gran Bretagna che anzitutto due cose: un unicum e un continuum; di conseguenza i primi due valori nazionali da salvaguardare, strettamente interconnessi, sono la peculiarità e la tradizione.

Appurato questo, sul Foglio di oggi dedico un paginone a spiegare due curiosi dettagli: che le radici dell'isolazionismo britannico affondano nell'interpretazione della Bibbia e che a dimostrare questa teoria è stato, forse involontariamente, proprio il Guardian che è il gran nemico dell'eccezionalità e della tradizione britanniche. Poi, a mo' di grasso che cola, aggiungo anche un articolino firmato con un'insospettabile sigla (an.gur.) che fornisce un'interpretazione freudiana del secondo numero della rivista letteraria Granta Italia, interamente dedicato al sesso.

Anzitutto Freud avrebbe da dire riguardo al fatto che la costante dei racconti degli italiani sia la mutilazione. Sull'erotico trionfa ciò che Tinto Brass chiama l'orrotico: mancano del tutto la sessualità giocosa di un Pasquale Festa Campanile e perfino quella, grottesca e ripugnante ma titanica, di un Antonio Moresco. Sembra che per gli italiani il sesso si traduca in castrazione. Ciò forse spiega perché i loro racconti siano mediamente più corti dei corrispettivi stranieri.

sabato 10 dicembre 2011

Oggi io e Francesco Savio iniziamo il nostro tour nelle più ridenti città della Padania onde presentarvi Anticipi, posticipi, il volume edito da Italic Pequod che racchiude le migliori fra le nostre rispettive rubriche - "L'anticipo" e "Il posticipo" - sul blog letterario della Gazzetta dello Sport, "Quasi Rete", e che di conseguenza ci renderà ricchi e famosi. Si parte questo pomeriggio da Pavia, alle 18 alla Nuova Libreria Il Delfino (Piazza Vittoria 11). Presenterà Roberto Torti de La Provincia Pavese. In attesa di accorrere numerosi, potete riscaldarvi leggendo l'intervista parallela che io e Savio abbiamo concesso a Roberto Alfatti Appetiti del Secolo d'Italia.

venerdì 9 dicembre 2011

Su Quasi Rete l'anticipo di questa settimana è Torino-Pescara 7-0 del 1989-'90 e di conseguenza si parla di voli aerei, automobili gran lusso, indignados e terroristi cattolici del 1604.

Nonostante che entrambe le squadre fossero appena retrocesse in parallelo, il divario nettissimo segnato dal risultato significava chiaramente che esistono squadre (come il Torino) che restano sempre parte di una serie A ideal eterna anche quando giocano nel sottoscala mentre esistono simmetricamente squadre (come il Pescara) che nonostante tutti i commendevoli sforzi gravitano sempre attorno alla serie B che si portano dentro ovunque vadano. Come conviene qualsiasi persona appena appena ragionevole, l'essenza del calcio non dipende dai risultati così come la nobiltà non dipende dai soldi.

“Essendo italiano il mio nemico è Giorgio Napolitano”, ha esordito quest’estate Camillo Langone scrivendo per Il Foglio un paginone a tema “Il mio nemico”. Poi, considerando che l’inimicizia col suddetto può ricadere sotto l’articolo 278 del Codice Penale, è addivenuto a più miti consigli prendendosela per il resto dell’articolo con un avversario meno inattaccabile quale Oliviero Toscani. Senza per questo voler rischiare la reclusione da uno a cinque anni, l’asserzione langoniana merita tuttavia di essere sottratta al proprio destino di boutade paradossale e va invece riletta alla luce della recente pubblicazione, per Marsilio, dell’edonistico volume Bengodi: i piaceri dell’autarchia.

Su Tempi in edicola questa settimana spiego chi fra Napolitano e Langone è più verosimile nel ruolo di salvatore della patria. Ci vediamo all'ora d'aria.

giovedì 8 dicembre 2011

E io avevo vivamente confidato, mentre Berlusconi annunziava quest'estate la terza o quarta manovra correttiva col cuore che gli grondava sangue, nell'abolizione ultima e definitiva di ogni ponte così che il mio compleanno non finisse stritolato nell'abbraccio mortale fra il giovedì dell'Immacolata e il sabato della settimana corta; avevo auspicato un normale compleanno lavorativo, scandito dai doveri d'ufficio e in qualche modo salvato dalle distrazioni della scrivania obbligatoria poiché le feste in generale mi rattristano, ogni compleanno che passa mi angoscia sempre più manco fossi una diva Lancome, e l'evenienza che il mo compleanno cada all'inizio del piano inclinato che conduce alle feste mi renderebbe compagnia francamente infrequentabile se non provvedessi io stesso non dico a isolarmi, per carità (l'adolescenza è finita da un pezzo) ma quanto meno a evitare ogni contatto ulteriore allo stretto necessario, di modo tale da non dover sentirmi ripetere ognora da ignari: "Gurra', ma che hai? Oggi sei incagabile".

Avevo tuttavia sbagliato i miei conti a priori e non solo perché il decreto antiponte della sanguinolenta manovra di Berlusconi si è perduto nei meandri della sesta o settima manovra correttiva altrui, ancor più sanguinolenta nonché lacrimosa; m'ingannavo soprattutto perché avevo dimenticato che il 9 a Pavia è il giorno del patrono san Siro che lo rende automaticamente festivo nonostante che fra una manovra e l'altra mi era parso di sentire che avrebbero abolito anche le festività patronali accorpandole alla domenica (di sicuro non le hanno abolite a Gravina dove ci si è concessi tre giorni di festa in onore di San Michele, dopo di che l'amministrazione comunale è stata commissariata per manifesta incapacità). Invece niente: festa l'8, festa il 9 e tutto ciò mi riconduce al mio primo compleanno pavese, il diciottesimo peraltro, quando ero ancora fresco di arrivo qui e mi ero ritrovato a festeggiare la raggiunta maggiore età con un party a sorpresa - organizzato ovviamente non da me, sarò anche un po' nevrotico ma qui si tratterebbe di schizofrenia - pieno di giovanotti pressoché sconosciuti, se non fosse stato per la contingente adiacenza spaziotemporale accademica, che non avevo mai visto prima e non avrei mai più visto poi, e sebbene non si possa insinuare che ciò sia un male è senz'altro una tristezza senza pari.

Pazienza, è la dura vita dell'emigrante d'ingegno e da mo me ne sono fatta una ragione. Fatto sta che ho smesso di lavorare sei ore fa e, sit venia verbo, questo ponte non abolito mi ha già cacato il cazzo quando mancano tre giorni e mezzo prima di poter tornare ad avere un ruolo e un senso in ufficio invece che star qui, come domani, a guardare la cassettiera e/o la radio a transistor (che appena alzo il volume si mette a gracchiare orrendamente, è made in chissà dove) mentre mi faccio forza per non elencare a memoria chi chiama e chi non chiama, chi si ricorda e chi non si ricorda, chi da quest'anno non mi fa più gli auguri e chi invece inizia a farmeli senza prima esplicitare eventuali secondi fini (non si può mai dire, la vita è breve et pleine d'anicroches.

Dice: ma se il ponte è iniziato stamattina non avresti dovuto avere smesso di lavorare venticinque ore fa e non già sei? Ben trovato; ma giunto che sono a un'età in cui la data di nascita non si nasconde ancora ma il compleanno non si festeggia più (meglio gli onomastici; meglio l'assunzione collettiva, anonima perché omonima, di tutti gli Antonio alle porte della luminosa estate nell'ancor più luminosa gloria del Santo) ho ritenuto opportuno accettare con gioia la commissione di un articolo da consegnare improrogabilmente entro stasera, festa o non festa; poi, siccome appunto sono nevrotico, prima ho chiesto di prorogare la consegna al mezzogiorno di domani e poi l'ho consegnato allo scoccare del mezzogiorno d'oggi. Dico che ho accettato con gioia, anzi quasi con entusiasmo (alé), perché si trattava alfine di un pezzo umoristico, anzi satirico, come non ne facevo da tempo; e nonostante un po' di ruggine iniziale sono stato lieto di agnoscere veteris vestigia flammae, come diceva il poeta, di incamminarmi nuovamente sulla strada che quand'ero adolescente mi portava a chinarmi sulla prima superficie piana a mia disposizione per scrivere prosette in cui dileggiavo baroccamente chi mi stava attorno, alternando saggiamente l'iperbole all'anticlimax; oppure che quand'ero universitario mi spingeva a intingere la penna nel risentimento traendone rime nella gran parte dei casi di scintillante sconcezza, sinceramente velenose, immancabilmente perfide nell'inchiodare chi conoscevo bene a ciò che magari sapevo solo io e chi non conoscevo affatto a ciò che riuscivo a intuire da una qualche mossa azzardata mentre credeva che nessuno vedesse.

Ora, il punto non è che più mi piace essere umoristico più riesco a sembrare umoristico mentre sono bilioso, né che più faccio ridere chi mi legge più in realtà sono solo e curvo sul mio quadernetto a organizzare un vasto atto di anarchia onanistica che lasci dietro di sé una scia d'inchiostro in cui ogni risata, ogni sorriso, ogni ghigno strappato a chi mi legge è in realtà un colpo d'ascia contro il compleanno, zac, il ponte, zac, la dura vita dell'emigrante d'ingegno, zac, insomma contro tutto ciò che mi circonda e non sopporto, così che quando il pezzo satirico viene pubblicato tutti (tutti quei pochi che lo leggono, s'intende) iniziano a spellarsi le mani per quanto sono brillante e quanto faccio ridere e quanto dev'essere divertente vivere con me, e di conseguenza io che a stento accetto la fedele compagnia del televisore mi irrito per la loro ingenuità e divento ancora più incagabile, non bastassero già il compleanno e le feste e la perniciosa combinazione fra i due.

Io dunque mi annoio così tanto durante i ponti che, di gran lunga stufo perfino di giocare col consueto adombramento genetliaco, stavolta ho iniziato ad annoiarmi già prima che il ponte iniziasse davvero, già mentre scrivevo detto articolo satirico e conservavo un'espressione perfettamente seria mentre imaginavo quante risate si sarebbero fatte i lettori immaginando quante risate secondo loro mi sarei fatto io scrivendolo; e mi annoiavo talmente che, di punto in bianco, ho cancellato tutto quello che avevo faticosamente scritto e ho deciso di ricominciare il tutto strutturandolo sulla base di un'implicita citazione da Dickens, implicita quanto si vuole visto che non ne facevo il nome ma in realtà abbastanza esplicita nella forma da far capire al lettore più analfabeta che dev'esserci qualcosa sotto (e per fortuna anche dalla redazione alla quale è toccata l'anteprima mi è stato confermato che si capiva, altrimenti c'era il rischio che cancellassi ancora tutto e ricominciassi in maniera più cristiana perché a furia di scrivere cose che nessuno capisce si finisce per non venire più pagati o, se la va, per diventare un autore di filosofia contemporanea), se non che poi la struttura della citazione implicita mi è parsa fin troppo esplicita e allora ho deciso di inserire nell'articolo una colta zeppa o meglio tre o quattro ammicchi ad Arbasino, oscuri a sufficienza da non consentire nemmeno a me di stabilire con certezza se fossero tre oppure quattro, e che sicuramente non verranno mai colti da nessun lettore e probabilmente nemmeno da Arbasino, più probabilmente ancora perché Arbasino non lo leggerà nemmeno questo famigerato pezzo satirico che mi ha salvato la mattinata, uno mica può leggere tutto (l'ho imparato perfino io sulla mia stessa pelle): così che alla fine mi sono visto costretto, per fronteggiare l'ansia montante da vigilia autoreferenziale, a scrivere quest'altro pezzo anzi metapezzo a mio uso e consumo, cantandomi e sentendomi la litania degli invisibili ammicchi ad Arbasino incastonati nella citazione implicita ad Dickens; un pezzo che se niente niente fossi nato americano mi avrebbe visto salutato come minimo quale vero erede di David Foster Wallace (ogni tanto ne nasce uno) e per il quale invece non mi saluterà nessuno, tutt'al più mi saluterò da solo, in quanto morirà sulle sterili pagine virtuali di questo mio blog, testata dalla quale non mi dissocio mai abbastanza, testata sulla quale ho da mesi ritenuto giunta l'ora di proibire ogni sorta di commento perché, cazzarola, o si trattava di critiche preconcette e ottuse espresse con sintassi incerta, e quindi erano inutili, o si trattava di complimenti in cui mi si incitava al grido di "Gurra', si' 'nu ggenie", e quindi erano altrettanto inutili se non dannosi, perché posso anche accettare l'idea della disgrazia di essere un genio (non si può mai dire), è solo che alla lunga non mi comprendo proprio.

lunedì 5 dicembre 2011

Sappiamo bene che è il momento della sobrietà, della compostezza, del darsi da fare, del rimboccarsi le maniche, dello stringere la cinghia, dello stringere se necessario anche la cravatta, del rimboccarsi se necessario anche i pantaloni; sappiamo bene che la congiuntura è drammatica, che non c'è niente da ridere, che sarebbe da irresponsabili anche solo azzardare una battuta sul fatto che, mentre in Russia per protestare c'è chi ha espresso il voto in topless, noi abbiamo dovuto rinunciare sia al voto sia ai topless; sappiamo bene che è finito il tempo dei lustrini, del bunga bunga, delle barzellette e delle apicellate. Però nulla mi tratterrà dal tirare un sospiro di sollievo notando che, mentre illustrava questa manovra lacrime e sangue, della ministra che piangeva è stata inquadrata solo la metà superiore.

domenica 4 dicembre 2011

Oggi si sente indubbiamente la mancanza della grafica essenziale, delle divise pastello, dei giocatori che sanno allacciarsi le scarpe e di Fabrizio Bracconeri, oltre che inevitabilmente di Gianfranco De Laurentiis che con la sua professionalità riusciva a rendere credibile perfino il Telebeam. Una cosa però mi manca più di tutte: i calciatori coi baffi, che erano il correlativo oggettivo di un'altra specie in via d'estinzione ossia gli uomini (eterosessuali) coi baffi.


Su Quasi Rete l'anticipo di questa settimana è Fiorentina-Roma 1-0, lo spareggio per la Uefa con la vendetta shakespeariana di Roberto Pruzzo.

giovedì 1 dicembre 2011


Da quando Michela Murgia mi ha definito “maschio e maschilista”, non solo in pubblico ma di fronte alla vasta platea di un collegio universitario femminile, non ho più paura di nulla; quindi posso scrivere senza patemi quanto segue.

Ma che gente frequento? Da ieri pomeriggio ininterrottamente molti giovanotti e giovinette che risultano miei amici su facebook se la stanno prendendo con Libero, che stando ai loro resoconti ieri ha proposto di “chiudere qualche facoltà per aprire più reparti maternità”. Per fortuna anche l’articolo in questione è opera di una persona che frequento e che leggo abitualmente, Camillo Langone, il quale con toni mai così moderati ha evidenziato alcune verità statistiche evidenti a chiunque non vada permanentemente in giro con una copia di Repubblica sugli occhi:
1)      gli italiani non vogliono fare i genitori;
2)      se non nascono figli agli italiani, l’Italia verrà riempita per mera legge fisica dai figli degli stranieri;
3)      la religione, a sorpresa, non sembra avere grande influenza come argine al calo delle nascite, che colpisce parimenti nazioni a maggioranza islamica e a maggioranza cristiana;
4)      dove aumenta la scolarizzazione femminile la maternità diminuisce.

Poiché so che i miei amici di facebook tendenzialmente non mi leggono, mi permetto di criticarli consapevole che ciò non intaccherà i nostri rapporti. I loro lamentosi schiamazzi, pregiudiziali e ripetitivi, non tengono conto di alcuni fattori cogenti:
a)      la posizione espressa nell’articolo di Langone non può essere identificata tout court con la posizione di Libero, che ha dedicato la stessa pagina 17 a un articolo di orientamento opposto scritto da Selvaggia Lucarelli (titolo: “Ma quale cultura? Serve solo più welfare”);
b)      la classica protesta secondo la quale le giovani italiane non fanno più figli perché guadagnano troppo poco è viziata da due paralogismi, vulgo fesserie:
i)                    non considera che situazioni di indigenza estrema non hanno trattenuto le italiane da figliare come chiocce nei secoli passati;
ii)                  rafforza involontariamente la posizione di Langone: è ovvio che le donne guadagnino poco, se si laureano tutte in lettere moderne;
c)      nell’articolo incriminato non c’è scritto niente di nuovo:
i)                    sia in senso relativo, in quanto Langone aveva pochi giorni fa sostenuto sul Foglio la medesima teoria (che non è ripetitiva, è solo giusta) e non era insorto nessuno;
ii)                  sia in senso assoluto, in quanto lo stesso Langone esprimendo tale teoria sul Foglio si era rifatto a Thomas Bernhard (che riteneva l’ignoranza il miglior incentivo alla gravidanza); e se vogliamo dirla tutta il ministro inglese David Willetts, che Langone citava ieri in chiusura d’articolo, sostiene la medesima teoria dai tempi in cui era all’opposizione, tanto che io stesso, si parva licet, gli avevo dedicato un articolone risalente ormai a quasi due anni fa.

Insomma, se qualcuna voleva protestare poteva farlo a suo tempo: accanirsi contro un articolo solo perché viene pubblicato su Libero e viene citato fuori contesto dal vario sottobosco di siti del progressismo viola è un po’ tardivo. Se vogliamo entrare nel merito della questione, potrei raccontarvi un episodio autobiografico che svela come il dilemma figli o istruzione sia un gioco a somma zero: negli scorsi anni mi sono avvalso dell’aiuto costante e benefico di una madrelingua per risolvere complicati problemi di traduzione in francese; costei ha avuto un bambino da poco e quando le ho chiesto aiuto per una semplice questione grammaticale non ha più avuto tempo di rispondermi, e giustamente perché chiunque abbia metà del buon senso necessario a non infilare le dita in un tritacarne si avvede di come prendersi cura di un bambino sia molto più importante della grammatica e pure della sintassi.

Mi sembra però più divertente farvi notare che, alla luce di quanto ho scritto sopra, chi ha criticato Libero per quest’articolo ha dimostrato in un colpo solo di:
I)                   non saper considerare un testo all’interno del suo contesto immediato, visto che non hanno notato l’articolo di fianco a quello di Langone;
II)                non saper considerare un testo all’interno del suo contesto storico, visto che non hanno saputo metterlo in correlazione con quello che Langone aveva scritto in articoli e libri degli anni passati;
III)             non riuscire a distinguere un articolo firmato dalla posizione della redazione di un giornale;
IV)             non leggere né giornali né libri (Langone pubblica con Mondadori e Marsilio, mica con La Compagnia del Torchio Rovente) a meno che non siano segnalati, già digeriti, da siti di veline progressiste;
V)                non saper distinguere la dura statistica dalle loro pie intenzioni o da ciò che sta bene dire in società;
VI)             non saper scrivere altro che non sia la cassa di risonanza di un’opinione altrui.

Sei numeri romani sono più che sufficienti per sancire che chi s’è messo ad abbaiare contro questo famigerato articolo di Libero, in buona sostanza, non sa leggere; quindi se studiasse di meno e facesse qualche figlio in più non sarebbe una gran perdita per l’Italia.
Sul Corriere della Sera del 25 novembre Claudio Magris si inalberava con Thomas Mann, reo di non aver smesso immediatamente di scrivere il giorno in cui la radio aveva annunziato lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Più grave ancora, agli occhi di Magris, è che la madre e la figlia dello scrittore, appreso l'evento, non avessero fatto irruzione nello studio dello scrittore per trascinarlo via dalla sua scrivania. Sul Foglio di oggi difendo le due povere donne dal dovere dell'impegno e, per estensione, la letteratura.


Purtroppo sono passati decenni dalla morte di Mann e nel frattempo abbiamo visto innumerevoli scrittori dichiarare l’irrefragabile perdita di senso della letteratura a seguito del Vietnam, dell’uomo sulla Luna, dell’11 settembre. Ogni rivoluzione copernicana della storia recente diventava una scusa per non lavorare; guadagnavano le prime pagine dei giornali radical-chic per qualche settimana e poi, scoperto che a lungo andare il loro silenzio non faceva più chiasso, zitti zitti si rimettevano a scrivere come se niente fosse.